Un bimbo e il suo papà affidatario - .
Oggi è un gesto solidale che troppo spesso deve farsi strada attraverso passaggi tortuosi, tra le tante incongruenze del nostro sistema di tutela dei minori fuori famiglia, schiacciato tra l’incudine dei giudici e il martello dei servizi sociali. Ma le famiglie che hanno avuto il cuore e il coraggio di aprire le porte di casa a un bambino in difficoltà, non ci stanno più a recitare la parte degli strumenti silenziosi “al servizio” delle istituzioni. Chiedono a gran voce maggior tutele e maggior protagonismo. Chiedono di essere riconosciute come interlocutori privilegiati dagli operatori dei servizi socio assistenziali, dai giudici minorili, dagli amministratori. Una richiesta ragionevole e motivata che il Tavolo nazionale affido, composto dalle 19 associazioni più importanti del settore, ha già presentato alla politica attraverso le nuove Linee di indirizzo, e che noi di Avvenire abbiamo rilanciato con il forum organizzato nella nostra sede di Milano nei giorni scorsi. Un incontro prezioso che ha offerto la possibilità ai rappresentanti di tutte le parti in causa – famiglie, associazioni, giudici, assistenti sociali, avvocati, esperti – di confrontarsi per mettere a fuoco le strategie migliori. Se rilanciare l’affido (-45% i casi nel 2023) e permettere al maggior numero possibile di minori fuori famiglia di crescere con il sostegno di due genitori motivati e competenti, è l’obiettivo comune, anche la strada per arrivarci dev’essere condivisa e compartecipata. La necessità, d’altronde, è nei numeri. Che parlano di circa 31mila minori (stranieri esclusi) fuori famiglia, di cui oltre 18mila in comunità: tanti, troppi. Tanti e di grande interesse gli spunti emersi per una conclusione impegnativa e indiscutibile. Per rilanciare l’affido è indispensabile motivare, accompagnare e sostenere in modo più efficace e costante le famiglie affidatarie. E si può farlo se politica, istituzioni e servizi spingono tutti, in modo concorde, dalla stessa parte. Sarà possibile? Noi ci crediamo e non smetteremo di chiederlo, motivarlo, raccontarlo. Ecco quello che è emerso.
Ripartire da una Giornata nazionale
«Chiediamo alla politica di sostenerci per realizzare insieme una Giornata nazionale dell’affido – esordisce Valter Martini, coordinatore del Tavolo nazionale affido –. C’è già una data, il 4 maggio e c'è un disegno di legge presentato al Senato, firmato da un gruppo trasversale di parlamentari. Dovrà essere una Giornata per riconoscere il valore delle famiglie affidatarie, quelle che si spendono tutti i giorni per togliere un bambino dalle difficoltà in cui vive. Quando questo si realizza è una ricchezza per tutti. E lo posso dire io che da quarant'anni, vivo questa bellezza, che è allo stesso tempo una ricchezza per la società. Questa ricchezza però va sostenuta con proposte concrete che noi rivolgiamo alla politica. C’è l’esigenza di motivare nuove famiglie disponibili ad aprirsi all’affido, che però vanno sostenute con la collaborazione dei servizi sociali. Noi lo vorremmo tanto e ci crediamo. Per questo chiediamo a tutti di tornare a riflettere insieme su questo istituto. Serve un riconoscimento, serve una co-progettazione, serve un obiettivo condiviso. Ecco perché, insieme alla Giornata nazionale, proponiamo una Conferenza nazionale sull’affido organizzata dal ministero della Famiglia. L’ultimo appuntamento governativo sul tema risale al 1997. Allora fu a Reggio Calabria. Ecco, puntiamo a rifare un’esperienza simile trent’anni dopo, nel 2027. Mancano poco più di due anni, il tempo minimo necessario per organizzare il lavoro preliminare necessario, per sensibilizzare le associazioni e tutte le altre realtà coinvolte. E chiediamo ad Avvenire di sostenerci in questa richiesta».
Un momento del forum di Avvenire che venerdì scorso ha riunito a Milano il mondo dell'affido: governo, associazioni, giudici, assistenti sociali e famiglie - .
Ecco quello che il governo sta facendo
«Oggi in Italia le politiche per l’affido camminano su due gambe. Da una parte – spiega Assuntina Morresi, vicecapo di gabinetto del ministero della famiglia – c’è Il ministero della Famiglia che ha una funzione di coordinamento, mentre tutto ciò che riguarda la presa in carico dei minori è è di competenza del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali che sostanzialmente opera in sinergia con gli ambiti territoriali e sociali. Proprio pochi giorni fa il nostro Osservatorio sull’infanzia ha elaborato il Piano nazionale per l'infanzia e l'adolescenza - che ora sta facendo tutto il suo iter per completare l'approvazione. - al cui interno ci sono alcune azioni dedicate esclusivamente all'affido. In questo impegmo rientra il disegno di legge proprio per una raccolta dei dati che servirà a coordinare meglio le politiche sull’affido. Ci sono state tante polemiche ma questo obiettivo ci è stato sollecitato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Una indicazione chiara: ci è stato raccomandato di potenziare il sistema di raccolta, anche a riguardo delle politiche per l'affido. Il registro dovrà dirci quanti sono i minori che vivono sia nelle comunità di tipo familiare sia nelle famiglie affidatarie. Ma anche il numero delle famiglie che si rendono disponibili. Questo perché poi c'è una seconda parte di questo disegno di legge che prevede che all'interno di ciascun tribunale di minori si costituisca un registro in cui viene indicati la data e gli estremi dei vari provvedimenti di collocamento del minore presso la famiglia o presso la struttura di accoglienza compresi i dati che riguardano gli allontanamenti e quelli relativi al percorso di ogni singolo minore. Perché allora tante polemiche su questo disegno di legge? Si è parlato di un'idoneità all'affido, come avviene per l'adozione, ma questo non è previsto. Invece è importante per le famiglie che accolgono in affido conoscere le storie dei bambini e i loro bisogni per aiutarli meglio. Perché quando si accoglie un figlio in affido ci si deve fare carico anche della famiglia di provenienza».
C’è il diritto del minore a un clima di felicità
«Il minore ha il diritto di crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità e comprensione. Ma la famiglia - osserva Carla Garlatti, garante per l’infanzia e l’adolescenza - può presentare delle problematiche di svariato genere. La stessa Convenzione Onu ci dice che il minore privo dell'ambiente familiare o con un ambiente familiare disfunzionale, ha diritto a una protezione sostitutiva. È proprio l'affido ad una famiglia rimane per questi bambini ragazzi la soluzione migliore. Anche i minori stranieri non accompagnati, non hanno la famiglia e anche per loro la legge prevede una tutela di tipo familiare. Metto al primo posto la famiglia, anche se ci possono essere dei casi in cui la l'accoglienza nella struttura residenziale può essere più adatta. La famiglia è sicuramente quell'ambiente che consente al minore di poter vivere e recuperare quelle criticità che ne hanno comportato l'allontanamento. L'Italia è uno dei Paesi che allontana meno rispetto a Francia, Germania e Inghilterra. Abbiamo veramente un gap elevatissimo. Ma siamo sicuri che questo sia un bene? Siamo sicuri che non sia invece una carenza di attenzione legata alla scarsità di assistenti sociali? Purtroppo in alcuni casi le varie criticità vengono intercettate tardivamente e il diritto del minore a una protezione adeguata non viene rispettato. In conclusione quello che voglio dire è che la famiglia affidataria è fondamentale perché può offrire al minore quel valore di cura e di serenità di cui è momentaneamente privato».
Il Garante per l'infanzia e l'adolescenza Carla Garlatti - .
Sui tribunali la scure della riforma Cartabia
«Anch’io voglio sottolineare l'importanza dell'affido, frutto di un pensiero che mette al centro i bisogni di bambine e bambini, ragazzi e ragazze. E consente loro - interviene Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano - di vivere in un contesto familiare con figure positive, di riferimento in attesa che vengano realizzati interventi di recupero delle risorse genitoriali. Si tratta di un processo che impone molte risorse, risorse che purtroppo non ci sono. Non si sono per i servizi, né per sostenere le famiglie affidatarie. Nella stessa grande Milano, pur così generosa, non ci sono più famiglie disposte ad accogliere minori. Stesso discorso per l’adozione. Il nostro tribunale che dichiara adottabili 80 bambini all'anno, non troviamo più famiglie disposte ad adottare anche bambini sani, non con bisogni speciali. Quindi abbiamo di fronte uno scenario fosco. E allora? Cosa possiamo fare? Dobbiamo insistere sulla sensibilizzazione , sulla testimonianza di esperienze vissute. Come è giusto dare voce a ragazzi e ragazze che hanno vissuto l’esperienza dell’affido e la ricchezza ricevuta nella loro realtà familiare. Ma dobbiamo pensare che l'affido è un'esperienza che va sostenuta e accompagnata. In caso contrario i bambini inseriti in affido familiare, già con tante difficoltà, poi si ritroverebbero completamente abbandonati a causa dell'assenza di una progettualità. Ancora più indispensabile con la riforma Cartabia che impone 24 mesi come termine massimo per l’affido. Oggi purtroppo i progetti non ci sono e l’attività dei tribunali per i minorenni è bloccata. Ci sono 13.300 minori davanti al tribunale per i minorenni di Milano in attesa di una risposta giudiziaria. Non possiamo pensare una questa risposta così complessa, quale quella di seguire un progetto di affido, si possa trovarsi se la disciplina processuale non diventa coerente con quelli che sono gli interventi giudiziari del del diritto minorile, che sono tutti urgenti. Ho già detto al vice-capo gabinetto Assuntina Morresi, che la raccolta dati non è disponibilità dei tribunali per i minorenni. E lo rispiego. Tutti i provvedimenti prevedono un intervento. Può capitare che ci sia un allontanamento, oppure un inserimento familiare che poi non viene realizzato. I tribunali questo possono non saperlo, mentre lo sanno i Comuni e soprattutto le Regioni. Per avere il riconoscimento economico, i Comuni devono rendicontare alle Regioni. Ecco perché questa raccolta dati non può essere richiesta ai tribunali per i minorenni».
Riscoprire il bello dell’affido
«Come Forum delle associazioni familiari, ci stiamo impegnando concretamente nel riprendere in mano il tema dell’affido a partire dalla comunicazione – spiega Cristina Riccardi, vicepreidente del Forum delle associazioni familiari –. Siamo stanchi di dare la colpa alla cattiva comunicazione che si è fatta negli anni di Bibbiano, anche perché oggettivamente le famiglie che oggi si presentano ai nostri incontri informativi di Bibbiano non sanno nulla. Perché allora l’affido è così in calo? Perché prima di dare disponibilità una famiglia oggi ci pensa dieci volte? La risposta è: perché le famiglie sono cambiate, perché le situazioni familiari sono più complicate e difficili da gestire. Il Covid ha avuto un ruolo decisivo: ci ha rinchiusi nelle nostre case e in qualche modo ha chiuso a chiave anche la porta dell’accoglienza. Per girare quella chiave, e riaprire quella porta, siamo convinti che serva tornare a raccontare l’esperienza affidataria nella sua bellezza, mettendola in mostra come se fosse arte, utilizzando cioè anche linguaggi nuovi: stiamo ragionando su un grande evento, che contiamo di realizzare nel prossimo mese di maggio, pensato come una mostra. L’affido diventerà pittura, fotografia, musica, e poi di affido si parlerà anche, con momenti di condivisione e riflessione. Obiettivo: ridare fiducia, contagiare le famiglie col bello dell’accogliere un bambino e diventare coprotagoniste del suo percorso di crescita e rigenerazione, mettendo sempre lui al centro».
Serve fiducia nei servizi sociali
«Si è detto che andare oltre Bibbiano, quando parliamo di affido, è il primo passo da fare. Bibbiano però c’è stato – rileva Barbara Rosina, presidente dell’Ordine nazionale degli assistenti sociali –. E il dato da cui partire è che i servizi sociali, da quel momento in avanti, sono finiti sempre nel mirino: che i bambini siano messi in protezione e allontanati temporaneamente dalle famiglie d’origine, che invece nel rispetto di quelle stesse famiglie non vengano allontanati, quando si parla di assistenti sociali si punta sempre il dito. C’è un clima di grande sfiducia. Il sistema dei servizi sociali, invece, esiste e lavora come un sistema di protezione delle famiglie: al cuore dell’azione dei servizi ci sono i bambini, i genitori, le reti di relazioni tra le famiglie più adatte perché tutti siano tutelati. I servizi hanno le capacità di incidere sui percorsi offrendo strategie, soluzioni, alternative. Cosa manca? Mancano risorse e personale. La cattiva notizia è che in passato (e ancora oggi) questo ha condizionato il nostro operato, a cominciare dalla disomogeneità degli investimenti: i livelli essenziali prevedono la presenza di un assistente sociale ogni 5mila abitanti, ma abbiamo ancora realtà dove ce n’è uno ogni 14mila o 15mila; abbiamo 560 euro spesi in servizi sociali pro capite nella Provincia autonoma di Bolzano contro i 9 della Calabria. Se investiamo 9 euro a cittadino che tipo di intervento ci aspettiamo di riuscire a garantire per aiutare una famiglia in difficoltà? La buona notizia, che oggi voglio condividere a questo tavolo, è però che nel sistema dei servizi sociali siamo di fronte a un momento di cambiamento epocale: il nuovo piano del ministero del Lavoro e delle politiche sociali prevede nel giro di due anni l’assunzione di educatori e psicologi. Questo ci consentirà di avere équipe multidisciplinari all’interno dei comuni, riuscendo a garantire alle famiglie risorse maggiori in termini di professionisti capaci e competenti e di provare a ricostruire con queste ultime un rapporto di fiducia. La richiesta che stiamo facendo come Ordine da almeno dieci anni, a livello nazionale, è quella invece di un riordino della professione che preveda l’obbligo della laurea triennale in servizi sociali per entrare in ruolo (obbligo che oggi non esiste): serve un percorso formativo specifico per rispondere alla complessità del sistema e dei bisogni in cui operiamo».
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Famiglie unite, no alla competizione
«Ci siamo concentrati recentemente sull’affido e sull’esperienza delle famiglie affidatarie in uno studio interdisciplinare realizzato con l’Associazione Cometa – ricorda la psicoterapeuta Ondina Greco, del Centro di Ateneo studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica –. Ne è emersa la preziosità della loro funzione e le difficoltà che esse vivono. Il risultato più interessante dell’analisi è l’orizzonte plurifamiliare che prende forma nell’istituto dell’affido: ci siamo chiesti come è possibile, infatti, che possano in qualche modo convivere due famiglie nella testa di un bambino e anche nella realtà delle sue relazioni. Questo rientra in realtà nella complessità della funzione genitoriale, che si sviluppa su più piani: così, se la famiglia affidataria svolge la funzione accuditiva ed educativa, favorendo l’inserimento sociale del minore, la famiglia naturale rimane invece la sua dimensione storica e per così dire intergenerazionale, oltre che biologica. Ed è proprio in questa dimensione che deve essere vissuto il rapporto con la prima affidataria: l’affido, cioè, funziona quando e perché le due famiglie riescono in qualche modo a vivere una genitorialità condivisa, cercando di allearsi per com'è possibile, per come si riesce, a non pensarsi come rivali. Questa competizione, se dovesse attivarsi e nei casi in cui purtroppo in qualche modo si attiva, senz'altro mette molto in difficoltà il bambino in affido».
Superare i pregiudizi
«Come associazione noi riteniamo che lo strumento dell'affido sia di grandissima importanza per la tutela dei minori, rispettando il diritto prioritario di ogni bambino, che è quello di crescere all’interno di una famiglia – precisa Grazia Ofelia Cesaro, presidente dell’Unione nazionale Camere minorili –. Quello che abbiamo però osservato, disarmati, è il progressivo discredito che è stato gettato sul nostro sistema di protezione dell’infanzia: sentir parlare di “allontanamenti zero”, come avvenuto nel caso del dibattito e poi della legge approvata in Piemonte, osservare i lavori delle Commissioni d’inchiesta, ritrovarci oggi qui a discutere di un disegno di legge che oltre a un osservatorio e dei registri parla di “collocamenti impropri”, partendo dall’assunto che ci siano collocamenti impropri nel nostro sistema, ecco tutte queste cose ingenerano sfiducia, creano sospetto, formano pregiudizi. A pagarne il conto è l’accoglienza, e i numeri sull’affido ce lo stanno dicendo con forza: sempre più spesso, quando come curatori ci troviamo a sollecitare i servizi per minori che sono in comunità chiedendo di trovare famiglie affidatarie ci sentiamo rispondere che non c’è disponibilità. A ciò si aggiungono le criticità legate alla legge Cartabia, che sono già state affrontate da chi mi ha preceduto, in particolare la durata degli affidi fissata in un massimo di 24 mesi (quando sappiamo benissimo che i procedimenti richiedono molto più tempo) e «salvo gravi pregiudizi». Sentiamo spesso dire, ce lo siamo detti anche nel corso di questo forum, che anche le famiglie sono cambiate, che è venuta meno in qualche modo la vocazione alla genitorialità, un elemento da cui dipende anche la drammatica crisi demografica che stiamo vivendo nel nostro Paese: mi piacerebbe allora porre la questione di come possiamo sfruttare questi cambiamenti e usarli a vantaggio dell’affido. Possono le “nuove” famiglie, per esempio quelle monogenitoriali, diventare risorse per l’affido? Possono i single? E come? Forse dovremmo imparare a vedere le sfaccettature del cambiamento che stiamo vivendo come delle nuove possibilità per il sistema di protezione e di accoglienza dell’infanzia».
Una manifestazione del Forum delle associazioni familiari - Agenzia Romano Siciliani
Il compito di arrivare prima
«A me sembra importante approfondire il tema della funzione preventiva dell’affido: nella mia esperienza – rileva Antonella Brambilla, già magistrata presso il Tribunale per i minorenni di Milano –, infatti, uno dei problemi principali è stata l’intercettazione tardiva dei bisogni. Quando parliamo di funzione preventiva dell’affido, non ci riferiamo solo alla necessità di considerarlo come uno strumento per ricostruire una famiglia, ma a qualcosa che dovrebbe precedere l’intervento di separazione dalla famiglia stessa. L’affido, cioè, non dovrebbe essere concepito come un mezzo per “togliere” quando la situazione è ormai compromessa, piuttosto per aggiungere risorse. È fondamentale distinguere tra diversi livelli di problematicità delle situazioni affinché l’affido abbia davvero una funzione preventiva.
Le istituzioni e le associazioni devono impegnarsi per sviluppare progettualità mirate a evitare, quando possibile, il collocamento dei minori in contesti estranei alla famiglia di origine. Un’esperienza significativa che mi piace sempre raccontare è quella della diocesi di Milano, che ha collaborato con il Comune per sostenere progetti di aiuto rivolti a 1.300 minori stranieri non accompagnati: questo progetto ha coinvolto una parrocchia nel quartiere Bicocca, dove al primo incontro si sono presentate 70 persone pronte a offrire supporto nelle scuole e a creare momenti di animazione e creatività. Alcune famiglie, partendo da un approccio inizialmente informale, hanno poi deciso di intraprendere percorsi più strutturati di accoglienza. L’esempio evidenzia come la fiducia in un contesto, sia esso ecclesiastico, istituzionale o comunitario, possa motivare le persone a partecipare attivamente e a offrire aiuto. L’affido non dovrebbe essere percepito come una tappa obbligata o una soluzione definitiva. Un altro elemento cruciale è la temporaneità dell’affido, come previsto dalla legge: le famiglie affidatarie devono essere ben informate sugli scopi e sulle responsabilità del loro ruolo. Talvolta, infatti, l’affido è erroneamente percepito come un percorso più semplice rispetto all’adozione, quando in realtà richiede una profonda comprensione della “doppia appartenenza” del minore: alla famiglia d’origine e alla famiglia affidataria. Quanto al Tribunale per i Minorenni, quest’ultimo non è un organo giurisdizionale ordinario.
La sua complessità deriva dall’interdisciplinarità delle funzioni e dalla necessità di collaborazione con servizi sociali, sanitari e famiglie affidatarie. Il problema è che questa complessità può rappresentare un ostacolo, soprattutto se le famiglie affidatarie non partecipano al progetto già prima dell’intervento del tribunale. Anche qui faccio un esempio: a Milano, dove ho lavorato, le famiglie affidatarie sono sempre ascoltate dal tribunale, come previsto dalla legge. Ma un’audizione non basta. È necessario che le famiglie siano coinvolte attivamente nella progettazione dell’affido, prima ancora che la questione arrivi in tribunale. Questo approccio richiede cura e attenzione, ma è fondamentale per garantire il successo dell’affido come strumento preventivo. Promuovere la funzione preventiva dell’affido significa allora – lo ribadisco – costruire un sistema in cui l’intervento sia tempestivo, partecipativo e orientato a rafforzare le risorse delle famiglie. Serve maggiore chiarezza negli obiettivi, una comunicazione efficace e il coinvolgimento delle famiglie affidatarie fin dalle fasi iniziali del progetto. Solo così l’affido può diventare davvero uno strumento di supporto, piuttosto che un rimedio tardivo.