Il porto di Odessa dopo un bombardamento - Nello Scavo
Il soldato ucraino scampato all’ennesimo bombardamento sul litorale la invoca in russo: «Mir». Anche se a chiamarla «pace» sa che non è la parola esatta. «Mi basterebbe che finisse. Basta con le sirene, con le bombe, con i fratelli in battaglia che muoiono. Abbiamo fatto più di quello che era umanamente possibile, forse possiamo reggere un altro inverno. Ma poi?».
Poco dopo, sul far della sera, un nuovo boato sul porto, a poca distanza. La colonna di fumo ci guida verso l’area cargo. Sei persone uccise e nove ferite a seguito di un attacco con missili balistici russi. E’ la nuova strategia di Mosca: danneggiare le navi che sfidano il blocco che Mosca vorrebbe imporre. Tre vascelli danneggiati in tre giorni. Nelle comunicazioni ufficiali viene precisato che gli 8 feriti sono tutti ucraini, 4 in condizioni disperate. Non è stata invece ufficializzata la nazionalità dei sei morti. La banchina colpita è quella dove era ormeggiata la Shui Spirit, una portacointaner di 168 metri con bandiera panamense.
Ascoltare chi ha la faccia sporca di fango e dopo oltre due anni vede il grilletto come un’estensione dell’indice è istruttivo. Quella del soldato stanco non è una voce solitaria. Gli altri del battaglione annuiscono. «Era una guerra per riconquistare la terra rubata, adesso è una guerra per tenere le posizioni», insiste quello che sembra il più anziano. Non sono militari di mestiere, ma lo hanno imparato in fretta. E quando apprendono delle ultime uscite del presidente Zelensky, se ne escono con un movimento del capo verso l’alto: «Volesse il Cielo».
Il piano per la pace in Ucraina «sarà pronto a novembre, con al suo interno anche tutte le condizioni per la fine della guerra», ha detto il presidente nel suo discorso al vertice Ucraina-Europa sudorientale tenutosi a Dubrovnik, in Croazia, precisando che il piano è stato già presentato agli Stati uniti. Domani Zelensky tornerà da Papa Francesco in Vaticano. Lo ringrazierà per avere nominato il primo cardinale ucraino (presule in Australia) e per gli sforzi nella “diplomazia umanitaria” che hanno visto la missione del cardinale Matteo Zuppi e il lavorio diplomatico del cardinale Pietro Parolin, aprire varchi un tempo impensabili: dallo scambio dei prigionieri attraverso una fitta rete di mediatori, al silenzioso ma non infruttifero impegno per il ritorno a casa dei bambini ucraini trasferiti sotto il controllo delle forze russe.
Secondo Zelensky «in ottobre, novembre e dicembre abbiamo la possibilità di muovere le cose verso la pace e la stabilità duratura. La situazione sul campo di battaglia crea l’opportunità di fare questa scelta, la scelta di un’azione decisiva per porre fine alla guerra non più tardi del 2025, contando sempre sul sostegno di Gran Bretagna, Italia, Germania, Francia e del presidente Biden».
L’appuntamento per le presidenziali Usa di novembre potrebbe cambiare (a seconda di chi sarà eletto) le sorti del conflitto, perciò il leader ucraino pone la scadenza di dicembre: a gennaio il presidente Biden dovrà lasciare la Casa Bianca, e ora la diplomazia si sta muovendo per concordare con Kiev e Mosca la cornice di un possibile negoziato prima di un possibile strappo nella politica estera Usa. Un passo in avanti avrebbe dovuto compiersi a Ramstein tra due giorni. Ma il vertice dei principali alleati dell’Ucraina nella base Usa in Germania è stato rinviato dopo che il presidente degli Stati Uniti Biden ha annullato la sua visita, a causa dell’uragano Milton e la necessità di coordinare i soccorsi. Il gruppo di Ramstein, che riunisce i 57 donatori di armi dell’Ucraina, si sarebbe dovuto riunire per il suo incontro di più alto livello dall’inizio del conflitto.
Secondo Zelensky l’ingresso dell’Ucraina nella Nato è da ritenersi il primo punto del “Piano per la vittoria”, perché costringerebbe la Russia a fare i conti con l’esistenza di un’Ucraina non conquistabile. Il Cremlino risponde con i raid. A Nord le truppe russe tentano di riprendere il controllo della regione frontaliera di Kursk, dove gli ucraini si sono infiltrati e assestati alcune settimane fa. A est le forze di occupazione continuano a catturare piccoli villaggi, cucendo un percorso che faciliterà la logistica dei rifornimenti alle prime linee nel Donbass. Ma è di nuovo dal Sud che lo stato maggiore moscovita rilancia le operazioni. Ieri su tutta l’Ucraina sono stati scagliati 21 droni: 18 erano però destinati alla regione di Odessa, dove in serata un missile ha sfondato la barriera della contraerea facendo tremare l’intera città dopo che aver colpito ancora una volta l’area portuale. Nei giorni scorsi erano state danneggiate tre navi mercantili che sarebbero dovute salpare con carichi di cereali. Secondo fonti russe, i vascelli sarebbero invece inviati da Paesi alleati di Kiev per «spedizioni speciali», presumibilmente armi. Notizie che nessuno conferma, ma che restano avvolte nella coltre dei segreti di guerra. Nei sobborghi della città sul Mar Nero, un drone “Made in Iran” ha colpito un edificio in costruzione di nove piani. L’onda d’urto ha travolto un vicino centro medico e diverse abitazioni: 5 i feriti secondo l’ufficio del governatore regionale. Mentre in città le autorità sono tornate a chiedere ai donatori di sangue di rimettersi in coda perché serviranno scorte.
Per i militari che trangugiano caffè lungo, in vista del turno di notte sulla baia di sabbia che guarda alla Crimea occupata da cui partono razzi e missili, la minaccia su Odessa vuol dire che Mosca «se mai si siederà a trattare, lo farà con il fucile puntato sulla “Perla del Mar Nero”. Per questo siamo qui. Sappiamo che la Crimea non potremo riprendercela con le nostre sole forze, ma non possiamo permettere i russi provino di nuovo a sbarcare di notte o distruggere quello che non gli appartiene». Le sirene antiaeree riprendono a ululare e neanche stavolta si sa da che parte arriverà il colpo che dopo pochi istanti ucciderà ancora.