L'elezione di Donald Trump alla presidenza statunitense presenta incognite sul piano strategico ed economico che potrebbero segnare significativamente la realtà dell’area Asia-Pacifico. E stravolgere un’indicazione di rotta espressa chiaramente, soprattutto nel corso del secondo mandato, dal democratico Barack Obama che aveva puntato tutto sull’apertura del nuovo fronte.Paradossalmente, a preoccupare ora non è la presenza americana, ma la sua potenziale ritirata, data l’insistenza della campagna elettorale di Donald Trump su isolamento diplomatico e protezionismo commerciale. Propositi che hanno il potenziale per rimodellare gli scenari politici e economici del continente che avrebbe bisogno di “più America” e non meno.
«In un mondo in cui l’Asia sudorientale è all’incirca al 25° posto tra le priorità internazionali degli Stati Uniti – ricorda Brian Kennedy, docente all’università thailandese Thammasat – la stessa Amministrazione Obama ha lanciato tanti proclami ma realizzato poco.Con Trump semplicemente se ne parlerà meno». In bilico è soprattutto il destino delle due maggiori strategie in Asia-Pacifico: il «pilastro asiatico» sul piano militare, il Partenariato Trans-Pacifico (Tpp) su quello commerciale. Il primo che prevedeva a regime il dispiegamento del 60 per cento delle forze navali statunitensi nell’Asia-Pacifico, il secondo che mirava a amalgamare un’area che, a parte gli Usa, includerebbe 11 Paesi a formare il maggiore agglomerato commerciale del pianeta. Entrambi, anche se non esplicitamente, mirati a contrastare l’espansione cinese .Se perseguita concretamente, la volontà espressa da Trump di un riflusso militare e di un maggiore impegno per la propria difesa da parte degli alleati giapponese e sudcoreano, il rischio sarebbe la destabilizzazione dell’Estremo Oriente e una corsa al nucleare per contrastare la minaccia nordcoreana e compensare il potenziale atomico cinese. Non a caso, nei giorni scorsi parlamentari sudcoreani dei maggiori partiti hanno chiesto che il Paese pensi a dotarsi di proprie armi nucleari davanti alla prospettiva che entro un anno il Nord possa disporre dei vettori in grado di lanciare le testate atomiche che sta perfezionando. Una prospettiva rischiosa al punto che persino analisti cinesi arrivano a auspicare un ripensamento di Trump rispetto ai proclami elettorali.
«Il colpo peggiore per l’Asia sarebbe un ritiro delle forze armate statunitensi e un forte ridimensionamento delle alleanze nella regione», segnala Yuan Zheng, esperto della politica Usa all’Accademia cinese di Scienze sociali. A rischio di aggravamento sono pure le tensioni nel Mar cinese orientale e meridionale attorno a cui si situa il 30 per cento dell’economia mondiale, ma anche la stabilità economica e finanziaria, già ora nella regione fortemente dipendente dalle politiche degli Stati Uniti che assorbono anche il 20 per cento dell’export regionale. A gettare acqua sul fuoco dei timori, il premier australiano Malcolm Turnbull, tra i primi a congratularsi telefonicamente con Trump dopo la vittoria. Sul piano militare, Turnbull prevede un’espansione Usa, in particolare della Marina, ma si è detto «poco ottimista» sulla sorte del Tpp che ha questo punto ha ben poche possibilità di essere ratificato da Washington. Giovedì Tokyo ha rotto gli indugi approvando la ratifica. Alla ricerca disperata di spazi di manovra per il suo export e a sostegno delle politiche sociali, il Giappone aveva poco alternative che seguire Washington che va invece prendendo una via divergente.
Determinante per valutare le possibilità di sopravvivenza del partenariato e, ancor più, le prospettive dell’alleanza militare e della presenza delle basi statunitensi nell’arcipelago nipponico sarà l’incontro tra il premier Shinzo Abe e Donald Trump, anticipato ma non ufficializzato per la prossima settimana. E la presenza militare cinese continua a crescere, anche nelle aree delle isole contese oltre che a Tokyo anche ad altri Paesi della regione.