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La década perdida, il decennio perduto. Così storici e sociologi definiscono i convulsi anni Ottanta latinoamericani, segnati da ripetute crisi e dal sistematico fallimento delle ricette neoliberiste adottate per risolverle. Una stagione drammatica, impressa a fuoco nella memoria collettiva. Con il Covid e il crollo del Pil di quasi 8 punti da questo innescato, il suo fantasma torna ad aleggiare. In una versione inedita. Il nuovo decennio perduto riguarda le donne latinoamericane.
A dare l’allarme è la Commissione economica Onu per la regione (Cepal). Gli ultimi dati mostrano una aumento della disoccupazione femminile a quota 22,2 per cento nel corso del 2020, ben 12,6 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente. Ovunque nel mondo le lavoratrici sono state più colpite rispetto ai colleghi maschi. Il 5 per cento di loro ha perso l’impiego, in base all’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). Le latinoamericane, però, rischiano un balzo indietro di un decennio, ai livelli del postcrac del 2008. Un crudele paradosso. Poiché il personale sanitario è per i tre quarti femminile, le donne sono state il principale argine alla pandemia durante la prima ondata. «Dottoresse, infermiere, ausiliarie, hanno affrontato condizioni di lavoro estreme, esposte al rischio contagio per la mancanza, spesso, di dispositivi di protezione – ha affermato Alica Bárcena, segretaria della Cepal –. Oltretutto in un contesto di elevata discriminazione salariale: le lavoratrici sanitarie prendono quasi il 24 per cento in meno degli uomini». Il passo indietro è dovuto a un binomio di fattori.
Da una parte, «c’è stata una clamorosa uscita delle donne dalla forza lavoro» a causa delle richieste di aiuto e assistenza nelle proprie case.
Dall’altra, queste sono occupate in maggioranza – quasi il 57 per cento – nei settori più “vulnerabili”, in primis quello dei servizi, messi a dura prova dai ciclici lockdown per evitare la diffusione del contagio. Per le collaboratrici domestiche, il panorama è fosco: in Brasile è stato licenziato il 24 per cento, in Cile il 46 per cento, in Colombia il 44, in Messico il 33 per cento. E i numeri reali sono ben più alti dato che buona parte degli impieghi sono in nero.
Già da tempo gli esperti definiscono il virus un moltiplicatore delle disparità. Nella sterminata regione dal Rio Bravo alla Terra del Fuoco, la più diseguale del pianeta, i vari divari esistenti assumono una sfumatura di genere ancor più marcata. Con un risultato tragico: 23 milioni di donne sono cadute in miseria negli ultimi dodici mesi, per un totale di 118 milioni.
Soledad, 50 anni, nata e cresciuta nella sterminata cintura urbana di Città del Messico, è una di loro. «Non avrei mai pensato che sarei finita così», sussurra mentre cammina per calle Corregidora, nel cuore della zona a luci rosse della capitale. Per tutta la vita è stata domestica – ovviamente senza contratto né assicurazione – e venditrice ambulante di tacos, sfoglie di mais tipica. «Una dopo l’altra, le famiglie mi hanno lasciato a casa nel timore che portassi il virus. Come faccio a mantenere i miei quattro figli? Avevo mesi di affitti arretrati, volevano sfrattarci... Una conoscente mi ha presentato al suo protettore ed eccomi qui», cerca di giustificarsi, anche se nessuno la accusa. Altre migliaia di donne nella sola Città del Messico sono state costrette alla stessa “scelta”. Secondo l’Ong Brigata di strada, la cifra di prostitute è più che raddoppiata dalla fine dell’estate, passando da 7mila a oltre 15mila. «Sembra assurdo proprio ora, con il rischio di contagio... », spiega la direttrice, Elvira Romero. «Pian piano ne sono arrivate di nuove. Le vedevamo entrare negli alberghi ad ore, senza abiti e trucco vistosi. Molte avevano le buste della spesa. Quando abbiamo iniziato ad indagare, ci rispondevano: “È l’unico modo che abbiamo per riempirle”».