Il premier Giuseppe Conto con Fayez al-Sarraj il 12 novembre 2018 - Ansa
«It’s complicated», usano dire i britannici quando la situazione è molto imbarazzante, e per il nostro Paese in effetti lo è. Lo è a causa della defezione del premier libico Fayez al-Sarraj, che mercoledì scorso di ritorno da Bruxelles ha bruscamente interrotto il piano di volo che avrebbe dovuto condurlo a Palazzo Chigi appena appreso che nei corridoi del governo già scorrazzava il suo nemico giurato Khalifa Haftar. Una stizzita ma prevedibile rinuncia da parte di un leader riconosciuto dall’Onu ma di fatto uomo debole del regime quanto Haftar è l’uomo forte, il “maschio alfa” di questa contesa.
Una contesa piena di contraddizioni che vede schieramenti incrociati e sovrapposti a sostegno dell’uno e dell’altro, dalla Nato (Turchia e Francia appartengono alla medesima alleanza ma Parigi appoggia il cirenaico Haftar e Erdogan il sempre più debole Sarraj) all’Onu (Russia e Francia, membri permanenti del Consiglio di sicurezza, non appoggiano il leader che il Palazzo di Vetro ufficialmente riconosce come unico e legittimo), fino al mondo sunnita (Egitto e Arabia Saudita sono nemici dei Fratelli musulmani che invece la Turchia e il Qatar vellicano e finanziano).
Non è tutto: Russia e Turchia, fratelli negli affari energetici, sono su due fronti diversi in Libia: da una parte i “contractor” della Wagner al soldo di Mosca, dall’altra i giannizzeri di Ankara, pronti a rimettere piede dopo 109 anni sul «bel suol d’amore».
Come si vede, it’s complicated. Ma da questo pasticcio si evincono almeno tre certezze. La prima riguarda l’Italia e la sua irrilevanza diplomatica nonostante le buone intenzioni. Se all’ondivaga politica dei due forni finora perseguita si aggiungono le gaffe protocollari (Sarraj – permaloso come solo i satrapi del Maghreb e del Medio Oriente sanno essere – si sarebbe risentito essenzialmente per essere stato messo in agenda dopo Haftar) perdiamo quel residuo di credibilità su cui facevamo affidamento per contare qualcosa nella Yalta che prima o poi verrà indetta per sistemare l’increscioso pasticcio libico.
La seconda considerazione riguarda la Russia. Poco vi è da aggiungere riguardo a Vladimir Putin, spregiudicato e vincente su tutta la linea, la cui persistente politica che alterna minacce a strette di mano, buoni affari e sostegno militare gli ha già fatto guadagnare dapprima la base di Sebastopoli in Crimea e successivamente (è la cambiale che Bashar al-Assad ha dovuto pagare per continuare a regnare sul fragile trono di Damasco) una robusta presenza aero-navale nei porti siriani e una promessa del governo di Tobruk (cioè di Haftar) di installare una base militare sulla costa della Cirenaica. Terza considerazione: dopo il summit fra Putin e Erdogan e l’annuncio di un cessate il fuoco in Libia a partire da domenica prossima appare chiaro che sono loro, i fratelli-coltelli del Great Game degli idrocarburi, a condurre il gioco, non l’Italia, non l’Europa, non la Nato e nemmeno l’Onu.
Giusto domandarsi dunque: che ne sarà di Sarraj? Dove andrà a finire il vaso di coccio di Tripoli una volta completata l’inevitabile spartizione della Libia? Nessuno per ora lo sa. Follow the money, «segui il denaro» recita un altro detto britannico. Perché è l’immensa riserva di idrocarburi che ammicca seducente dai terminali di Ras Lanuf nel Golfo della Sirte e di Mellitah e Zawiyah in Tripolitania a muovere gli appetiti regionali e internazionali attorno al puzzle libico. E saranno i più forti e i più spregiudicati a stabilire un domani le porzioni con cui dividersi la torta energetica. Difficile pensare che fra di essi ci possa essere ancora Fayez al-Sarraj.