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Frutto certo di un’iconografia classica che contrappone il gesto da lacrime alle lacrime del nulla lasciato dal ferro e dalla polvere da sparo delle bombe.
Serve però a riflettere. Senza forse affannarsi solo a voler etichettare questi operatori che scavano tra le macerie (sono un gruppo filo-opposizione, è la riserva più pressante che arriva contro i White Helmets), per cercare le ragioni di tutto questo “volersi pubblicizzare”.
Andrebbe fatto un passo oltre, spogliandosi del “pro e del contro” perché, insegnano, “il bene non ha bandiere se il fine è solo quello”.
Così quell’immagine potrebbe riportare nei giusti termini un conflitto che emerge a singhiozzo dalle pagine dei giornali. Per giorni è una guerra “carsica”, poi la strage torna a fare notizia. Scandalizza, commuove e poi scomparire per altri giorni dalle pagine e dai siti di informazione. Mentre ad Aleppo si muore, ad Hama, ma anche alla periferia di Damasco o lungo il confine, mai tracciato sulle carte, tra il Califfato e ciò che resta della Siria.
Un’immagine di vita non per esorcizzare la morte, ma soprattutto per rispondere a chi sulla tregua sta speculando da mesi. Usa, Russia, Siria, Iran, Arabia Saudita, e l’elenco potrebbe continuare. Su corridoi umanitari negati, su no-fly zone irrealizzabili, su cessate il fuoco che resistono solo il tempo dell’annuncio. Su più di trecentomila morti in cinque anni, tredici milioni di profughi interni e costretti alla fuga all’estero. Sulla gente di un Paese che è ormai sempre più difficile chiamare, semplicemente, Siria.
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