mercoledì 10 luglio 2024
L'analisi della criminologa Mara Cesarano sul fenomeno delle aggregazioni giovanili devianti a partire dal vuoto educativo causato tra l'altro dalla fragilità della figura paterna
Baby gang a Milano

Baby gang a Milano - Fotogramma

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La criminalità minorile sta diventando un problema sociale sempre più preoccupante. Quando parliamo di criminalità minorile bisogna prendere in considerazione il concetto di “devianza” e di “antisocialità”, in quanto vengono violate le regole sociali e morali appartenenti ad un contesto sociale fino ad arrivare alla violazione di regole penali.

Il comportamento deviante può essere ricondotto al connubio tra fattori psico-individuali, assenza di valori educativi e morali. Molto spesso la causa di tali comportamenti si riconduce al contesto familiare in primis. Quindi una famiglia incapace di educare e che anzi sarebbe la prima a dover essere “educata”; infatti, spesso la radice dei comportamenti violenti viene acquisita dai minori proprio in famiglia ove la presenza del “cattivo esempio” è purtroppo rappresentato dalle figure adulte di riferimento.

In particolare, si è rilevato che nell’adolescenza la mancanza di una figura paterna adeguata può portare, soprattutto nei figli maschi, conseguenze gravi come mancanza di autostima, difficoltà nei rapporti interpersonali e soprattutto senso di smarrimento dovuto alla mancanza di modelli positivi, equilibrati e coerenti con cui confrontarsi.

Altro fattore determinante è la mancanza di scolarizzazione (in particolare i ragazzi stranieri) che determina il mancato inserimento sociale nel mondo del lavoro e limita gli stimoli che, appunto attraverso lo studio e lavoro, possono proiettare al di fuori dell’emarginazione delle periferie.

I fattori di rischio alla devianza/violenza giovanile, secondo gli studi criminologici e sociologici, possono quindi in prima battuta essere ricondotti alla mancanza di tutta una serie di elementi formativi nel corso dell’evoluzione del minore. E sono elementi di tipo familiare, scolastico, sociale e ambientale. Da tali considerazioni deriverebbe che l’azione deviante sia il risultato di tutta una serie di componenti individuali ed ambientali.

Nelle baby gang la violenza diventa un messaggio di “riconoscimento” di chi si sente nessuno, di chi vuole acquisire visibilità, anche attraverso i social. Non ci si concentra tanto sull’atto violento che si compie ma sul modo di renderlo virale per arrivare ai tanti ambiti “like”. Il gesto violento molto speso non è quindi il fine ma il mezzo.

Il comportamento delinquenziale ha appunto il fine di attivare forti emozioni per dimostrare a sé stessi e soprattutto agli altri di essere qualcuno. E questo può attenuare momentaneamente il grave disagio interiore in cui questi giovani vivono.

C’è da rilevare però che tra questi gruppi vi sono talvolta anche ragazzi di buona famiglia, ossia adolescenti che non soffrono gli svantaggi economici ma nascondono un malessere e una fragile identità. Anche loro nel gruppo trovano maggiore autostima e cercano a loro volta il concetto di “appartenenza”.

Cosa vogliamo intendere con questo termine? Ogni epoca ha avuto ed elaborato con estrema fluidità il concetto di appartenenza. Secondo alcune teorie i ragazzi commettono azioni criminali per sentirsi totalmente parte del “gruppo dei pari”. Il concetto di gruppo è fondamentale nell’adolescenza e diventa un riferimento, spiega il senso di appartenenza e i processi di connessione con altri individui, in modo tale da determinare un’identità e una conseguente crescita della propria autostima. La necessità personale e sociale di riconoscersi all’interno dell’ “entità gruppo” è così grande da allontanare sempre più questi ragazzi dalle loro famiglie e avvicinarli all’uso di alcool, droghe e quindi al rischio di commettere reati.

Quindi il gruppo, in particolare il ”gruppo dei pari”, assume un’importanza vitale, soprattutto quando, come aggregazione patologica, fa sentire forti e invincibili, dà voce a chi da solo non ha il coraggio di liberarsi di quel senso di rabbia e di disistima che lo attanaglia.

Un elemento colto analizzando la relazione del 2017 dell’Osservatorio Nazionale sull’Adolescente - che si può ritrovare anche nella letteratura dedicata a questo argomento - è che le bande giovanili non rappresentano necessariamente un fenomeno strettamente criminale, ma possono rispondere ad un’emergenza relativa alla salute mentale e al benessere adolescenziale, le cui conseguenze possono permanere anche in età adulta.

Nel corso della storia, a partire dagli inizi del ‘900 (scuola di Chicago ), ma anche in tempi più recenti, sono presenti studi relativi alla formazione della violenza minorile e all’azione delle baby gangs. Episodi che si ritrovano anche dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nei ghetti afroamericani, comparve inoltre un’importante componente di ribellione ai valori del sistema dominante e alla discriminazione razziale.

Troviamo pertanto sicuramente un punto comune riguardo alla violenza giovanile negli esempi nella storia passata e presente, ovvero la protesta verso i ceti più privilegiati, verso la povertà e l’emarginazione. Tra gli elementi alla base della violenza anche la percezione di sentirsi esclusi dalle possibilità di realizzazione causata dal contesto in cui si vive, una realtà in cui – come detto - l’illegalità risulta spesso presente. Questi elementi comuni, nella loro interezza e complessità, concorrono a caratterizzare la formazione dei gruppi. Sono situazioni che persistono anche oggi come forme di resistenza alle condizioni di marginalizzazione e discriminazione, oltre che come forma di esternazione di una rabbia compressa (secondo alcuni accresciuta durante il periodo del Covid) che si manifesta nel compimento di azioni devianti.

Quando si fa riferimento alla povertà (o all’inadeguatezza del contesto sociale), come elemento che favorisce la formazione delle baby gang, non si intende soltanto l’aspetto dei mezzi economici a disposizione dell’individuo per rispondere ai propri bisogni, ma si definiscono tutte le carenze, in particolare quelle relazionali. Infatti, anche i ragazzi cresciuti in contesti agiati possono avere condotte antisociali ed entrare a far parte di gruppi criminali. Sono ragazzi che vivono in situazioni economiche vantaggiose e non abitano le periferie, ma con i loro comportamenti manifestano ugualmente uno stato di malessere che li spinge a comportamenti violenti. Gesti che permettono un’apparente autoaffermazione, nascondendo un’identità fragile, grazie al riconoscimento gratificante del gruppo. Il punto in comune, tra ragazzi devianti di diverse condizioni socio-economiche, è l’assenza di “riferimenti” adulti capaci di dare risposte alle richieste affettive ma anche di sostenere e accompagnare il percorso di crescita e di responsabilizzazione.

Nell’analizzare specificatamente il fenomeno della criminalità minorile in Italia, appare evidente l’influenza esercitata dai social media. Sul web sono numerosi i messaggi ispirati all’illegalità, spesso nel mondo dei rap e trap.

Nella cultura «trap» molti giovani desiderano proprio essere visti ed etichettati come criminali, ciò non porta altro che a una demonizzazione ulteriore di questa cultura. Non vengono però colte le “sottigliezze” di un certo comportamento criminale, deviante o trasgressivo, contenuto nel più ampio contesto culturale. Si tratta infatti di un’auto-rappresentazione della criminalità che viene utilizzata come strumento mercificabile. Serve a trasformare la musica e la creatività in un lavoro e in una fonte di guadagno facile e di notorietà. L'emergere della cultura trap ha offerto a molte persone giovani la possibilità di sperare in ciò che chiamo il “nuovo sogno italiano”. Ovviamente si tratta di un’emulazione delle baby gang di origine di matrice sudamericana e statunitense.

Ecco perché è rilevante studiare e capire per ridimensionare il fenomeno della devianza giovanile riportando i ragazzi al presente. Va compreso il loro senso di rabbia, il loro desiderio di autonomia al fine di evitare che i loro comportamenti sfocino nella violenza.

Non possiamo accontentarci solo delle continue lamentele, della mancanza di prospettive, dell’assenza di figure autorevoli di riferimento. Sarebbe invece opportuno rafforzare la rete sociale, sollecitando maggior collaborazione tra le famiglie e i professionisti del welfare sociale. Le parole chiave sono prevenzione ed educazione. Ma servono anche spazi di aggregazione e socializzazione, centri sportivi aperti a tutti. Oltre a creare nella scuola percorsi di educazione emotiva e alla affettività. Importanti anche percorsi formativi alla legalità con l’obiettivo di prevenire e di contrastare ogni forma di bullismo con la sensibilizzazione verso i soggetti più deboli ed emarginati.

Negli ultimi anni si è parlato di gang di latino-americane massicciamente operanti nel Centro- Nord (Genova, Milano, Torino, Bologna, Brescia, Padova, Prato, Venezia); al Sud invece soprattutto a Napoli, Bari e Catania.

La situazione sta diventando sempre più preoccupante al punto che se ne sta occupando la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza che ha prodotto un interessante report: Con baby gang si intendono gruppi di adolescenti, poco più che bambini, che riproducono dinamiche tipiche della microcriminalità organizzata”. Cioè, ragazzi che, insieme, commettono reati di svariato genere e gravità. Queste mini gang rappresentano un fenomeno molto complesso, che non si identifica con quello più ampio della criminalità minorile dei singoli né con quelle delle gang giovanili e, anche se deve essere differenziato dal bullismo comunemente inteso, lo si può ritenere una forma organizzata dello stesso. Come già riportato, questi gruppi non hanno una durata lunga e la loro attività si esaurisce in poco tempo, con qualche azione violenta. È un fenomeno fluido non strutturato, dissimile rispetto al mondo criminale degli adulti, che però suscita grave allarme sociale per la giovanissima età dei componenti e per la particolare aggressività con la quale vengono compiuti i delitti, originati spesso da motivi futili, della cui gravità gli stessi ragazzini non sono coscienti, come non sono coscienti delle conseguenze dei loro comportamenti sulle persone più fragili, le loro vittime.

Quasi mai le baby-gang si aggregano con l’obiettivo di conquistare beni economici, anche se spesso gli episodi criminali sono di natura predatoria. I fattori determinanti nella formazione di questi gruppi sono, come detto, l’identità e la noia, con alla base un patologico senso di rabbia che si cerca di appagare con la violenza e la sopraffazione verso i più deboli e la sfida verso le istituzioni. Elementi che creano nelle città e nei quartieri paura e insicurezza, costringendo i cittadini a cambiare le proprie abitudini di vita, gli orari, i mezzi pubblici e tanto altro. In ogni caso un fenomeno grave, che occorre arginare prima che sia troppo tardi.

Avvocato, criminologa forense

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