martedì 17 settembre 2024
La denuncia di una maestra di lungo corso: non diamo nessuna garanzia ai genitori. Troppi insegnanti incompetenti ma le denunce cadono nel vuoto. Eppure siamo noi che cresciamo gli adulti di domani
«Quando lasci i tuoi figli a scuola, sai a chi li affidi?»

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«Per me che vengo da un altro lavoro, un posto di lavoro come questo in cui quando arrivi la mattina tutti ti corrono incontro per abbracciarti e dirti che sei bellissima e gli sei mancata tantissimo e ti vogliono raccontare tutto quello che gli è successo è un bel cambiamento. Vale anche se sono alti un metro». Lo scrive Nora De Luca (nome di fantasia) nel romanzo “I figli degli altri. Una vita da maestra”, edito da Mondadori. Un libro che «si ispira alla realtà, ma è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione», chiarisce una nota prima delle pagine iniziali.

A essere reali, autentici, sono i sentimenti della protagonista nei confronti dei suoi alunni e viceversa: «Io faccio la maestra e quando ho cominciato a fare questo lavoro ricordo che ero sempre stupita. Stupita dell’entusiasmo, dell’amore, del dolore e delle difficoltà dei bambini ma stupita anche dalla difficile convivenza degli adulti in un sistema complesso. Questo stupore forse veniva dal fatto che io ne sapevo poco di scuola ed ero un po’ ingenua, ma poi mi sono resa conto che fuori dalle scuole è difficile capire, sapere cosa succede dentro, le cose belle e le cose brutte», scrive l’autrice. E spiega così la scelta dello pseudonimo, a protezione della privacy non soltanto sua: «Ho scelto di non mettere il mio nome sulla copertina di questo libro perché mi sembra un po’ di tradire un segreto ben custodito di cui faccio parte, la fatica di vivere nella scuola che ci accomuna tutti. Di questo tradimento, dell’idea di dare in pasto a chi legge la mia e la nostra vita, il nostro sforzo quotidiano con tutte le sue imperfezioni, provo vergogna, per non parlare di quanto mi fa paura». Una decisione che stride con l’epoca dei selfie, dell’esibire la propria vita privata sui social in cerca di “mi piace”, e che va invece d’accordo con uno sguardo educativo a cui interessa la sostanza, non l’apparenza.

Ne viene fuori uno spaccato vivido di quello che significa, oggi, essere un’insegnante in una scuola primaria: «Da un giorno all’altro mi sono ritrovata maestra di una classe di bambini e non avevo la minima idea di quello che ci si aspettava da me. Mi sono formata insieme a loro, accanto e con l’aiuto di colleghe generose, giorno per giorno. Ricordo che all’uscita del primo giorno di servizio ho dovuto riconsegnare i bambini agli adulti che erano venuti a prenderli. Non conoscevo i bambini, ancora. Non conoscevo gli adulti. Ho sperato ardentemente che ciascuno di quei bambini arrivasse a destinazione, ma non ne ero così sicura. Me ne sono perso uno?, pensavo. Il dubbio era così forte che uscita da scuola mi sono fatta il giro del quartiere in cerca di bambini che vagavano soli per le strade».

La scuola raccontata da Nora De Luca «è un po’ improvvisata e ogni giorno apre grazie allo sforzo, la buona volontà, i limiti e gli slanci di un esercito di donne e di pochi uomini. Ci sono insegnanti bravissime, insegnanti non proprio bravissime. La verità è che quando entri qui, per mano ai tuoi figli, quando li affidi a queste sconosciute perché gli insegnino a stare al mondo, non hai alcuna garanzia che ti troverai davanti persone capaci, empatiche, di buon senso. È possibile, ma non è certo. Li porti qui tenendo le dita incrociate dietro la schiena, in un primo esercizio di lasciare i tuoi figli piccoli al mondo nella speranza che ne abbia cura e pietà».

In questo caso è particolarmente toccante la storia del piccolo Gianni, originario del Senegal: «Ha due occhi scuri, molto profondi e uno dei due è segnato da una cicatrice, mezzo chiuso. Questo non intacca il fascino di Gianni che ha tanta di quella gioia di vivere che basta per tutto il primo piano. Entra la mattina di slancio e con il sorriso. A dispetto del carattere solare, Gianni ha dei profondi momenti di malinconia. All’improvviso si mette a piangere e dice che si è ricordato di un momento del suo passato e lo ha sentito come se fosse adesso. La mamma che non è venuta a prenderlo un giorno fuori dall’asilo, il papà che lo ha picchiato (e che è stato allontanato e non vive più con loro) sono istanti che tornano e lo travolgono con la forza del presente. Una volta che ci sono stati non puoi più liberartene. Sono, sempre». Come lui, ogni bambino e bambina custodisce un mondo di emozioni. Per questo l’autrice pensa che «per fare questo lavoro serva una qualità al di sopra di tutte le altre. Sì, servono empatia, fermezza, sensibilità, autocontrollo e blablabla, ma più di tutto il resto quello che serve è una dose di pragmatismo fuori del normale. Devi sempre essere pronta a prendere decisioni da un istante all’altro che siano le più sensate, facilmente e rapidamente applicabili, le migliori in quel breve istante».

Non mancano le pagine di denuncia delle storture che la maestra vede e che la preside stigmatizza con queste parole durissime: «Non l’hai capito che questo lavoro è solo un ammortizzatore sociale? Questa è una fossa dove lo Stato ci mette quelli che non sa dove mettere. Se come preside io sollevo troppo spesso la questione dei docenti incompetenti al ministero, quella che rompe i coglioni sono io, non loro. Il sindacato sta là con la sola funzione di mantenere questa gente nella macchina a livellare la scuola verso il basso. Noi stiamo qua a metterci una pezza e tenere in piedi un sistema che è trattato come un reddito di cittadinanza ma ha il compito delicatissimo di crescere i futuri adulti. Aiutarli a distinguere giusto e sbagliato, imparare a trattare se stessi e il prossimo. Per questo hanno scelto i peggiori, gli sbandati, quelli in difficoltà. E poi hanno deciso di buttarli nel sistema dandogli giusto un'occhiata sommaria».

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