lunedì 9 settembre 2024
Ernesto Emanuele compie 90 anni e lancia un nuovo appello: mettiamo davvero in pratica le indicazioni di papa Francesco. Sabato a Milano un convegno sull'affido condiviso, che non funziona
Ernesto Emanuele

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Una vita moltiplicata per tre. Da una parte la famiglia, dall’altro il suo lavoro di imprenditore nell’ambito della consulenza aziendale. In mezzo, soprattutto negli ultimi 35 anni, l’impegno nel volontariato per accompagnare e sostenere le persone separate che, come lui, hanno vissuto e vivono la sofferenza della disgregazione familiare. I primi 90 anni di Ernesto Emanuele sono trascorsi così. Faticosamente in bilico su tre fronti. Il lavoro l’ha spesso premiato grazie alle sue intuizioni di imprenditore esperto nella consulenza aziendale. I rapporti in famiglia, soprattutto dopo la separazione, non sono stati agevoli, anche se lui ha sempre caparbiamente rivendicato il suo dovere/diritto di essere un padre presente con i suoi tre figli, che oggi hanno tra i 40 e i 55 anni. Ma se oggi torniamo a parlare di lui – l’abbiamo fatto più volte su queste pagine – è perché in tanti anni di impegno ha saputo trasformare la condizione delle persone separate, aiutandole e aiutandosi a superare nella società e, soprattutto, nella Chiesa quello stigma negativo che soprattutto trent’anni fa pesava sulle spalle chi aveva visto infrangersi il proprio progetto di vita familiare. Con le associazioni da lui fondate e presiedute – “Papà separati”, “Famiglie separate cristiane”, "Separati fedeli" – ha ridato speranza a dignità a centinaia di persone che, dopo la fine del loro progetto familiare, erano convinte di aver perso tutto e di essere fuori dalla comunità ecclesiale

Ripensando a questi decenni di battaglie per le persone separate, qual è la prima immagine che s’affaccia nel suo cuore?

La sofferenza, tanta, che ho accolto, ascoltato e accompagnato, che poi sono le tre “a” del nostro percorso (ascolto accoglienza, accompagnamento), ma soprattutto ascolto e vicinanza per tanti padri che non possono più vedere i propri figli. Abbiamo sempre cercato di ascoltare e di tutti e ho soprattutto ricevuto tanto dalle persone aiutate. Conservo tantissimi loro commenti. Questa ricevuta nei giorni scorsi: “Grazie a te sono un padre felice. Capire che non sei solo in certe situazioni è veramente tanto”. E anche questa, recentissima: "La contatto per ringraziarla dell'aiuto che ho ricevuto durante il nostro primo colloquio...Capire che non sei solo in certe situazioni fa veramente tanto".

Com’è cambiata in trent’anni la condizione delle persone separate?

Se parliamo dei padri è decisamente peggiorata. C’è molta violenza e molto povertà. Negli anni ’70 e ’80 la violenza era soprattutto ideologica. I pregiudizi nei confronti dei padri erano pesantissimi. Ho letto di una giudice che ha affermato: “i padri chiedono l’affidamento dei figli solo per non pagare l’assegno di mantenimento”. Nel pensiero corrente gli uomini separati erano quelli che frequentavano il night. Oggi la violenza è reale. Parliamo purtroppo spesso, giustamente, dei femminicidi. Ma dovremmo parlare anche dei suicidi dei padri separati. Quasi ogni settimana vengo a sapere di tali casi. Sono padri che non sopportano di non riuscire a vedere i propri figli.

Come se lo spiega? Padri ridotti in povertà che non riescono a tirare avanti?

Ci sono cause economiche e cause morali. Le prime sono sotto gli occhi di tutti. Le statistiche che raccontano le condizioni degli uomini dopo la separazione ormai non si contano più. La Caritas ha più volte sottolineato che, tra gli italiani che vanno a bussare alle mense dei poveri, i padri separati sono in netto aumento. Noi stessi riceviamo decine di telefonate da uomini che, dopo la separazione, sono tornati alla casa dei genitori oppure dormono in auto o nelle stazioni. Per pagare l’assegno di mantenimento ai figli non riescono a sostenere un nuovo affitto. Ma la ragione è semplice. I giudici impongono che l’assegno di mantenimento per i figli venga rivalutato periodicamente con l’adeguamento Istat, mentre gli stipendi rimangono sempre gli stessi.

Eppure, la sensibilità verso questi temi è cresciuta negli ultimi anni. Lei nel 2020 ha ricevuto l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano proprio per l’impegno in questa attività di volontariato…

Sì, peccato che nel frattempo la casa per accogliere i padri separati a Rho sia stata chiusa. Si parla di separati soltanto quando scoppiano le tragedie. Ma non andiamo a mai vedere cosa c’è dietro. Non voglio giustificare nulla, beninteso. La violenza è sempre e comunque da condannare, soprattutto quando coinvolge figli innocenti. Ma le tragedie non nascono per caso o solo perché alcuni uomini sono violenti e incapaci di sopportare il dolore del distacco. quale è è in tutto ciò la responsabilità delle istituzioni, dei servizi sociali che non sono intervenuti. E anche della comunità civile che si è girata dall’altra parte. E anche della comunità ecclesiale…

Ma l’atteggiamento della comunità ecclesiale è profondamente mutato in questi ultimi anni. La svolta impressa da papa Francesco con Amoris laetitia ha ridato piena cittadinanza ecclesiale alle persone separate e in nuova unione. Non si avvertono questi cambiamenti a livello locale?

La “svolta”, anzi la rivoluzione di papa Francesco è enorme ma ancora nelle comunità ecclesiali si registrano grosse difficoltà a dialogare con i separati e ciò che è stato scritto troppe volte rimane solo sulla carta. Purtroppo, è una costante del rapporto tra Chiesa e separati. Quante volte abbiamo gioito per quello che veniva scritto sui documenti ufficiali e poi non si è riusciti a tradurre in prassi concrete quelle belle affermazioni.

Da dove nasce questa delusione?

Quando alla fine degli Ottanta sono nate le nostre associazioni, ho subito cercato di capire quale fosse la posizione della Chiesa. I documenti erano incoraggianti. C’è un testo del 1975, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, in cui, parlando di persone separate, si afferma che “l’aiuto non potrà restringersi ad un atteggiamento di umana comprensione e di evangelica accoglienza, ma dovrà adoperarsi per modificare le situazioni sociali carenti in una visione di giustizia e di carità”. Parole magnifiche, ma poi concretamente non si è fatto assolutamente nulla. Nel 1999 la Cei organizza addirittura un convegno - ma a porte chiuse - “Matrimoni in difficoltà: quale accoglienza e cura pastorale”. E poi un altro nel 2011, “Luci di speranza per le famiglie ferite”. Fiumi di buone intenzioni. E vorrei ricordare anche le espressioni veramente commuoventi del cardinale Dionigi Tettamanzi che nella sua Lettera del 2008 chiama noi separati ed anche quelli che hanno iniziato una nuova unione “fratelli amati e desiderati”, un abisso dalla precedente definizione quali “pubblici peccatori e concubini”.

Difficile quindi dire che su tema, anche prima di papa Francesco, la Chiesa sia rimasta in silenzio.

Non dico questo. Ma se mi chiede quanto abbiano inciso questi documenti, queste prese di posizione del magistero sulla vita concreta delle comunità, preferisco sospendere il giudizio. È vero che oggi esistono nelle diocesi dei gruppi di preghiera per separati e per divorziati risposati, ma quanti sono quelli in cui si riconosce piena dignità ecclesiale alle persone a cui ci si rivolge? Spesso quei gruppi sono guidate da coppie “regolari” mentre i separati sono soltanto “oggetti” e non “soggetti” pastorali.

Esistono però anche tante esperienze pastorali positive. Non crede che il cambiamento sia stato avviato e non possiamo che attenderci nuovi interessanti sviluppi?

Molti anni fa ne avevo fatto notare con molta discrezione al cardinale Martini - che non avevo mai conosciuto personalmente - come in una sua lettera natalizia vi fossero citate cinque figure femminili, una migliore dell’altra, e per contro quattro figure maschili a confronto senz’altro peggiori. Il cardinale ebbe la estrema bontà di rispondermi con un biglietto personale scritto con una calligrafia minutissima in cui, oltre a ringraziarmi, mi assicurava che ne avrebbe tenuto conto. Cosa che avvenne un anno dopo nella successiva lettera natalizia. Quando Martini aveva già lasciato la guida della diocesi, ebbi ancora un colloquio con il suo segretario sempre a proposito del ruolo che movimenti e le associazioni dovrebbero avere nell'opera di integrazione delle persone separate e che spesso, come aveva lasciato intendere Martini, non riescono ad avere. Qualche mese dopo venne pubblicato quel libro-intervista, Conversazioni notturne a Gerusalemme, in cui dice che la Chiesa è indietro di 200 anni. Ecco, non vorrei che per vedere la piena integrazione delle persone separate e divorziate nella Chiesa – un’integrazione nei fatti e non solo nelle parole – sia necessario attendere tanto. Intanto tanti padri continuano a non vedere i propri figli.

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L’occasione per festeggiare i 90 anni di Ernesto Emanuele sarà offerta sabato prossimo, 14 settembre a Milano, quando l’associazione Papà Separati Aps, in collaborazione con l’associazione Famiglie Separate Cristiane, l’associazione Mamme Separate-Donne nella separazione e il network Colibrì, coordinamento interassociativo per la bigenitorialità e le ragioni dell’infanzia, organizzerà un incontro sul tema dell'affido condiviso (Biblioteca Chiesa Rossa, Via San Domenico Savio, 3, ore 10,30).
Le associazioni di genitori separati intendono tornano a sottolineare l’urgenza di rivedere una legge, la numero 54 del 2006 sull'affido condiviso, che fondata su principi largamente condivisibili – la pari responsabilità educativa tra genitori – è stata formulata in maniera tale da non poter essere davvero applicata.
Già nel 2015, a dieci anni di distanza dall’approvazione, il dossier Istat “Matrimoni, separazioni e divorzi", al termine di un’analisi statistica comparata sui figli assegnati in affido alla madre o al padre, sottolineava l’anomalia del cosiddetto "genitore collocatario", quello cioè dove il minore stabilisce la sua residenza.
Si tratta di una norma – era in sostanza il parere espresso nel Dossier- che non ha inciso né sull'atteggiamento culturale dei magistrati, né sul benessere dei figli coinvolti nella separazione. E non ha ridotto in alcun modo neppure il tasso di conflittualità tra gli ex coniugi che, come più volte ribadito, è determinato in buona parte dalle divergenze legate all'assegno di mantenimento. Dieci anni dopo la situazione non è cambiata.
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Ma qual è il problema della legge 54? Quello introdotto dalla norma è un approccio che rende l’affido solo “nominalmente” condiviso, mentre per cambiare lo sguardo culturale e, soprattutto la prassi giuridica, servirebbe un affido "materialmente" condiviso. La legge 54 ha lasciato di fatto invariati, o addirittura ha finito per peggiorare – come dimostra il dossier Istat - gli indicatori determinati dalla scelta dell’affido condiviso. La legge cioè non ha inciso sui comportamenti educativi dei genitori e non ha introdotto alcun obbligo per stabilire accordi preventivi sulle modalità con cui occuparsi in modo congiunto e condiviso dei figli. L’affido "materialmente" condiviso, definito appunto shared parenting (così funziona la legge nelle maggior parte dei Paesi europei) prevede che in sede giudiziaria venga stabilito e sottoscritto un protocollo dettagliato su come gestire tempi e scelte, spese e altri dettagli riguardanti la giornata del minore che vive la separazione dei genitori.

Più la suddivisione è equa, sulla base di un protocollo educativo condiviso da papà e mamma e sottoscritto davanti al giudice, più le condizioni dei figli migliorano. Domanda d’obbligo. Come mai, alla luce di queste evidenze riconosciute trasversalmente da tutti gli addetti ai lavori (giudici, avvocati, mediatori familiari, associazioni) non si è mai provveduto a modificare una legge che, in vent’anni, ha prodotto tante illusioni e innescato troppi fallimenti educativi senza incidere sul tasso di conflittualità dei genitori separati? Forse perché – è stato osservato - i pochissimi tentativi di riforma sono stati segnati da pregiudizi ideologici e di genere, oppure perché – altra ipotesi – l’affido condiviso che mette sullo stesso piano, almeno concettualmente, il ruolo della maternità e della paternità, si scontra con un atteggiamento culturale ancora prevalente nella magistratura secondo cui è meglio siano le donne ad occuparsi dei bambini. Un patriarcato latente che privilegia l’impegno educativo al femminile per assegnare agli uomini, almeno idealmente, ruoli considerati più importanti sul piano sociale e lavorativo.
Ma al di là di queste opinioni, che si possono condividere o mano, è certo che la legge 54 non funziona e che troppi genitori separati hanno sofferto e soffrono tuttora per un vuoto legislativo che penalizza il loro diritto-dovere di continuare a educare. Dopo vent’anni è giusto chiedere alla politica di tornare ad occuparsene, senza steccati e senza divisioni, sperando finalmente in una legge più ragionevole ed equilibrata.

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