Emanuela Bizzotto con i tre figli, la nipotina e i genitori adottivi
“Sono nata a Trento verso mezzogiorno dopo un travaglio durato un tempo accettabile, sono nata da donna che non consente di essere nominata, questa è la dicitura usata da sempre dai tribunali italiani nel caso la madre biologica non riconosca il proprio figlio. Per la donna che mi ha messo al mondo, finito il dolore del parto, è iniziato un dolore molto più grande che non termina con la conclusione delle doglie, ma si protrae per un tempo indefinito!»,
Lo scrive Emanuela Bizzotto nel libro autobiografico Figlia di madre che non consente di essere nominata (Giovane Holden Edizioni) che è la lunga e travagliata storia della sua ricerca delle origini.
Spessi i racconti autobiografici, almeno quando non si riferiscono ad avventure mirabolanti oppure a personaggi conosciuti, rischiano di diventare noiosi perché si perdono in particolari, certo importantissimi per chi scrive, ma quasi irrilevanti per il lettore che è all’oscuro di quelle trame esistenziali. Questo libro invece non risulta mai pesante, mai prolisso. Forse perché si avverte tra le righe la tensione che l’ha animato. E si coglie nettamente che mai, in nessuna delle pagine, l’autrice cede alla tentazione del romanzesco o alla voglia dell’esagerazione.
La vita di Emanuela, moglie e mamma felice, donna serena ed empatica, è proprio quella che emerge dal suo acconto. La precisione cronologica, la voglia di non trascurare nessun passaggio, servono a inquadrare la vicenda complessa di una vita, anzi di due percorsi esistenziali paralleli. Da una parte il suo, quello di una bella bambina bionda a cui è toccata la fortuna di due genitori adottivi buoni e generosi, da cui ha avuto tutto quanto era necessario per crescere serenamente. Dall’altra quello, ben più complesso, difficile, denso di fallimenti e di sofferenze della madre naturale, degli altri due figli e dei suoi parenti, di cui Emanuela non saprà nulla fino al 2019. Un racconto “a specchio” che si dipana nella provincia italiana degli anni Sessanta e Settanta, in un angolo di Trentino dove le due valli teatro della vicenda, la Valsugana e quella del Rendina, non sono così distanti, almeno in linea d’aria, ma per 43 anni, agli occhi di Emanuela Bizzotto hanno rappresentato due mondi lontani da riavvicinare. E, alla fine, quel lungo-breve percorso è stato interamente compiuto.
Ma quanta fatica per riuscirci. Emanuela avvia la ricerca già 2008 con una raccomandata al tribunale dei minori di Trento dove chiede di poter accedere ai dati della mamma biologica. «Non so che faccia abbiano fatto quando lessero la missiva, so solo che mi risposero dicendo che quanto chiedevo era inammissibile».
All’epoca, l’articolo 28 della legge 184 del 1983, quella sulle adozioni, era un macigno che nessuno pensava di poter sgretolare. Parole di durezza estrema e uno spazio temporale così ampio da apparire una condanna preventiva per chiunque cercasse di penetrare il muro del silenzio. Questo recita la legge: “… Nel caso di figlio non riconosciuto alla nascita, chiamato anche N.N., le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite all’esercente soltanto dopo il compimento del centesimo anno di età…”.
Un secolo di attesa. Una beffa atroce. Poi, in seguito alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo nel 2012, è arrivata la sentenza della Corte costituzionale del 2013 - e infine nel 2017 la Cassazione – a rimescolare le carte, anche se la legge, incredibilmente, rimane la stessa.
Ma Emanuela, e tanti altri figli adottivi come lei alla ricerca delle origini, ha avuto finalmente a disposizione strumenti giuridici importanti per ritentare il suo percorso di avvicinamento: «Presentai istanza nel 2016 e siccome in quel frangente la mia bramosia era molta, iniziai anche a fare delle ricerche personali. Il tribunale in prima battuta mi convocò e mi ritrovai davanti un giudice non togato che non sapeva assolutamente nulla della mia storia e che appunto voleva conoscere le motivazioni della mia ricerca. Mi chiese appunto cosa mi spingesse a voler trovare colei che mi aveva partorito, dalla mia bocca uscì quello che sempre avevo nel cuore, che volevo incontrarla per ringraziarla del dono della vita, per farle sapere che l’avevo sempre pensata e mai odiata».
Ma il giudice non sembra convincersi facilmente: «Chiese se in famiglia tutti sapevano di quello che mi apprestavo a fare, so per certo che il tribunale tiene in grande considerazione il fatto che a casa non ci siano segreti sull’adozione e la ricerca delle origini biologiche (...). Ci congedammo sapendo che l’iter sarebbe stato lungo. Mi venne così la brillante idea di investigare per conto mio, anche questa è una qualità che ho sempre avuto e devo dire che mi riesce anche bene, alle volte. Riuscii a reperire il numero di telefono di un’infermiera che lavorava in quegli anni in ostetricia, la chiamai, all’inizio mi sembrò un po’ titubante, ma poi forse anche trascinata dal mio desiderio e dalla nostalgia decise di aiutarmi, in quanto grazie all’aiuto di Facebook avevo messo un post pubblico dove spiegavo che cercavo la mia mamma biologica».
Alla fine spunta una donna, si dice certa di conoscere la mamma biologica di Emanuela, indica il Comune dove dovrebbe risiedere. Ma la pista si rivela sbagliata. Ancora nel 2017 il Tribunale per i minorenni di Trento comunica che le ricerche non hanno fino a quel momento portato a nulla di significati o. Poi, finalmente, nel gennaio 2019, la svolta: «Considerando che avevo convinto anche il mio avvocato che la mia mamma biologica fosse morta, quando mi chiamò fui certa che fosse per darmi le mie carte; invece, trovai una Martina (l’avvocato ndr) sconvolta ma felice in quanto la mia mamma biologica era viva e si apprestavano a contattarla».
Ma occorre arrivare fino a settembre, sempre del 2019, per conoscere l’esito dell’interpello (la procedura con cui il Tribunale chiede alla madre biologica se desidera entrare in contatto con un figlio abbandonato alla nascita). Il giudice convoca nuovamente Emanuela, altre domande, altri accertamenti a proposito della volontà di incontrare davvero la mamma che non ha mai conosciuto. Dopo qualche giorno la telefonata decisiva: «Il giorno dopo avevo un impegno con la catechesi e mi trovavo con il parroco di un paese limitrofo quando squillò il cellulare. Era il mio avvocato che con voce rotta dalla commozione mi disse “Emanuela, è un sì! La tua mamma biologica ha deciso di togliere l’anonimato!».
Raggiunto l’obiettivo, tutto adesso sembra scorrere velocemente, nel pomeriggio arrivano tutti i dati della mamma biologica, il decreto e l’atto integrale di nascita. Arriva anche la cartella clinica di Luisa, la mamma biologica. Nel documento Emanuela scopre con il cuore in gola di avere una sorella, Romina, morta purtroppo in un incidente stradale nel 1990, e un fratello, Luca, nato nel 1983. Infine l’incontro, struggente ma attesissimo, con la donna che 43 anni prima era stata costretta ad abbandonarla. Si incontrano tra le aiuole di un parco termale e si riconoscono all’istante. «Con la coda dell’occhio vidi venirmi incontro una donna con un mazzo di fiori bianchi, piangeva, le sue mani tremavano, mi abbracciò e mi disse: “Emanuela, io ti ho pensato ogni giorno della mia vita”».
Scorrendo le pagine di un libro scritto più con il cuore che con la ragione c’è un fatto che emerge con forza, la volontà incrollabile di riallacciare i fili della propria storia, di ricostruire un’identità che, senza quel tassello decisivo, non si può considerare completa. Eppure, come racconta nel dettaglio, Emanuela è stata una bambina e una ragazza felice. I genitori adottivi Gino e Angelina l’hanno amata ed accudita come meglio non si potrebbe. Un amore profondo che si è tradotto in una genitorialità attenta e consapevole, capace di mettere sempre al primo posto quella bambina arrivata come un dono dal Cielo. Emanuela è anche moglie e madre felice di tre ragazzi. Anzi, tre anni fa il più grande dei suoi figli le ha regalato anche una nipotina, rendendola nonna. Eppure, nonostante tutti questi affetti, belli e robusti, il desiderio di incontrare la mamma biologica è sempre stato pari all’intensità di tutti gli altri sentimenti vissuti. L’idea di quella madre, a lungo immaginata e desiderata, non ha però mai oscurato l’amore per la mamma adottiva che l’ha accolta e cresciuta per tanti anni.
«La classica domanda che mi veniva posta quando parlavo della mia ricerca delle origini era proprio cerchi la tua mamma vera? All’inizio mi indignavo e rispondevo che a casa non avevo una mamma finta; poi con gli anni ho capito che è un discorso dettato dall’ignoranza, che però se va a braccetto con la cattiveria è deleteria».
Nessuna ambivalenza, nessun rischio di sovrapposizione. Anzi, quelle due madri, ciascuna con la sua peculiarità e con il proprio posto nella vita di Emanuela, sono elementi preziosi e insostituibili. Si legge ancora nel libro: «Che cos’è una madre? È una domanda, secondo me, che nel corso della vita noi figlie ci facciamo, magari rivolte a noi stesse se siamo mamme, ma anche rivolte verso la propria mamma. Non è una cosa inusuale sentire delle figlie che si lamentano della propria madre, ne elencano i difetti, le mancanze, la poca empatia, a volte la freddezza; poi ci sono quelle figlie che asseriscono che la loro madre è la loro migliore amica, le vedi andare per negozi insieme, in vacanza o a passeggio, devono sentirla ogni giorno al telefono se lontane da casa e le raccontano la loro giornata, i litigi con il marito, le difficoltà con i figli e quello che succede al lavoro».
Figlie e madri diverse, eppure sempre figlie e sempre madri. Come Emanuela che oggi, dopo tanti trascorsi a cercare, combattere, sperare, si dice fortunatissima, non solo ad avere “due madri”, ma anche ad aver scoperto la seconda - che poi è la prima - al momento giusto. «Quando l’ho incontrata, 4 anni fa, ero a mia volta madre e moglie. Avevo tanto atteso e tanto sofferto. Il mio percorso mi ha dato modo di sospendere il giudizio e di valutare tutto con serenità. Ecco perché adesso posso dire che la ricerca delle origini è un obiettivo giusto e importante, ma - conclude - va fatto nei modi e nei tempi giusti. Lasciar passare cent’anni come dice la legge è assurdo, ma anche farlo troppo presto, quando ancora i fatti e le emozioni non si sono sedimentati, potrebbe avere un contraccolpo troppo pesante sia per la persona adottata, sia per la mamma biologica».
Sono 400mila in Italia le persone adottate alla ricerca delle origini. Una speranza “variamente” ostacolata dai Tribunali italiani, perché nel nostro Paese non c’è ancora una legge specifica che indichi procedure, possibilità e limiti per tradurre questo obiettivo in un percorso concreto. Esistono progetti di legge, attualmente ne sono depositati due, ma nessuno è mai riuscito ad arrivare al traguardo. Ancora, una volta all’inizio della legislatura, come già era successo per quattro volte negli ultimi 15 anni, il Comitato per il riconoscimento delle origini biologiche, ha promosso la presentazione di un disegno di legge mirante a modificare l'articolo 28 della 184/83.
“Il disegno a firma di Gianpiero Zinzi della Lega – spiega Anna Arecchia, presidente del Comitato per il riconoscimento delle origini - è stato sottoscritto da ben 38 deputati di tutti gli schieramenti politici presenti in Parlamento. Questa volta, dopo le delusioni delle scorse legislature in cui il provvedimento è sfumato proprio in dirittura d’arrivo – speriamo riesca ad arrivare alla votazione decisiva”.
In attesa della legge oggi però i i tribunali vanno in ordine sparso. C’è chi “apre” e chi si comporta come se Consulta e Cassazione non avessero mai parlato. Il tema ha trovato nuova accelerazione nel dicembre scorso, dopo l’uscita del film di Sergio Castellitto Il più bel secolo della mia vita, la prima opera cinematografica sulla cosiddetta: “Legge dei 100 anni” che vieta a un figlio non riconosciuto di conoscere la sua storia familiare fino al compimento del centesimo anno di età.
Nei mesi scorsi sono nati anche tre sportelli, collegati alla rete Faro (Figli adottivi ricerca delle origini) a cui è possibile rivolgersi per avere indicazioni . Sono a Firenze, presso l’Istituto degli Innocenti; a Roma, gestito dall’associazione Destinazioni Minori Aps e a Milano, presso il Centro terapia dell’adolescenza (Cta). Gli esperti che animano queste strutture si sono ritrovati la scorsa settimana a Firenze nell’ambito del convegno “In contatto con le origini. Figli adottivi alla ricerca delle origini e dell’identità”, in cui sono stati affrontati i tanti temi che s’intersecano in questa realtà.
«Oggi sono sempre più numerosi i giovani e i meno giovani che, dopo l’adozione, si interrogano sulla propria identità. Un desiderio legittimo ma che – osserva Francesco Vadilonga, psicologo e psicoterapeuta, direttore del Cta di Milano, tra gli organizzatori del convegno – va affrontato con cautela. Nel mio centro ci prendiamo carico delle famiglie adottive, ma sempre più spesso arrivano anche adulti adottati che si interrogano sulla propria identità. Sono persone che vanno assistite perché essere parte attiva nel questo percorso per definire il proprio destino espone al rischio di destabilizzazioni». Lo psicologo lo spiega in questo modo: «L’adozione taglia in due le persone adottate, una parte rimane più o meno inconsciamente nel luogo d’origine, una parte segue la nuova famiglia nella nuova destinazione. La ricerca delle origini punta a ricomporre questo puzzle, dove c’è sempre un trauma che va ricucito. Ma – dice ancora Vadilongo – occorre farlo nel modo giusto. Recuperare quella parte di sé che è stata stato spezzato è valore che oggi, come oggi abbiamo capito, può essere anche una terapia».
Sulla necessità di un accompagnamento psicologico per le persone che si mettono sulle tracce delle proprie origini concorda anche la psicologa e psicoterapeuta Margarita Assettati: «Non vuol dire che tutti i figli adottivi sono problematici, ma che la ricerca apre spazi per tante domande complesse, dal rapporto tra genitori adottivi e genitori naturali, alla scoperta di fratelli e sorelle di cui non si conosceva l’esistenza». Quando queste novità avvengono magari via social, senza accompagnamento adeguato, i rischi - osserva la psicologa - sono tanti.
Da qui l’impegno delle associazioni per informare e sensibilizzare.