Disturbi alimentari degli adolescenti. Due parole che suscitano sempre nei genitori una serie di reazioni a catena. Si parte dall’attacco di panico. Si prosegue con l’autoflagellazione (“con questa figlia ho sbagliato tutto”), alternata alle accuse al partner (“hai concesso troppo, sei sempre stato/a troppo indulgente verso di lei”), per concludere con la ricerca affannosa di un esperto in grado di affrontare il problema. Diciamo subito che se la prima e l’ultima reazione – il panico e la ricerca dello specialista – sono comprensibili, quelle successive sono destituite da ogni fondamento scientifico. Lo schema psicologico più volte citato, secondo cui anoressia e bulimia solo legati al conflitto madre/figlia con un padre assente, non trova rispondenze nelle ricerche. Non vuol dire che la famiglia non c’entri nulla. Il ruolo di mamma e papà è insostituibile e può essere “pesante”. Sia “in entrata” – quando si tratta di attenuare e controllare i sintomi – sia “in uscita” – quando occorre lavorare tutti insieme per permettere alla figlia di mettersi alle spalle il problema.
Vediamo perché. Innanzi tutto, abbiamo sempre parlato di figlia e non di figlio non perché non esistano adolescenti maschi alle prese con anoressia e bulimia, ma perché le statistiche ci dicono che nel 90 per cento dei casi questi problemi riguardano le ragazze. Dall’inizio della pandemia i casi registrati di disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono aumentati circa del 36% rispetto agli anni precedenti come riporta uno studio pubblicato lo scorso anno dall’International Journal of Eating Disorder: una revisione di 53 ricerche condotte sul tema e che ha coinvolto complessivamente oltre 36 mila pazienti, con età media di 24 anni, di cui oltre il 90% donne. Dati che erano stati anticipati e confermati da una indagine condotta anche in Italia e pubblicata sul Journal of Affective Disorders già nel 2021.
Ma se gli errori educativi di mamme e papà non solo decisivi per scatenare un disturbo alimentare nei figli adolescenti, quali sono le cause alla base di questi problemi? “Le stranezze nelle abitudini alimentari rappresentano molto spesso la punta dell’iceberg di una fragilità psico-emotiva rimasta sommersa”, spiegano le psicologhe Giulia Rancati e Laura Rigobello nel libro Adolescenti con disturbi alimentari. Per capire e affrontare i sintomi di tuo figlio (Franco Angeli, pagg.139, euro 19), che arriva nei prossimi giorni in libreria. All’origine ci sono sempre “sentimenti di forte solitudine, abbandono e allontanamento dal contesto reale, peggioramento dell’umore, idee suicidarie, atti di autolesionismo, accessi al pronto soccorso per episodi di panico”. E le famiglie che ruolo hanno? “Esistono sicuramente atteggiamenti all’interno della famiglia, come l’emotività espressa, che possono mantenere, migliorare o peggiorare il problema”. Per emotività espressa, argomentano ancora le due esperte che hanno coordinato un lavoro interdisciplinare a cui hanno collaborato anche Giorgia Paggiarin, Luca Celotti, Caterina Mamini, Manuela Manfredi, Marco Pastorini, “si intende l’insieme delle attitudini e dei comportamenti verso un familiare ammalato e include cinque dimensioni: 1. i commenti critici; 2. l’ostilità; 3. l’eccessivo coinvolgimento emotivo; 4. i commenti positivi; 5. il calore dimostrato”.
Quindi, se c’è non prova che i comportamenti dei genitori siano scatenanti, occorre però prestare la massima attenzione alle modalità con cui si accompagnano i figli alle prese con questo problema. “Il senso di colpa vissuto dai genitori legato al momento di difficoltà dei figli – sottolineano ancora Rancati e Rigobello - non li aiuta ad essere parte attiva del processo di cura, anzi li paralizza e toglie loro consapevolezza di quanto possano essere risorsa del percorso, parte della soluzione di quel momento”. Perché in ogni percorso di cura, da quelli ambulatoriali ai periodi di ricovero, l’alleanza con i familiari è fondamentale. La famiglia anzi diventa “l’altro esperto”. In questa triangolazione - adolescente, genitori, esperti – mamme e papà sono aiutati a conoscere meglio i disturbi dei figli, ad acquisire competenze relazionali utili al cambiamento dei loro ragazzi ed anche della famiglia stessa.
“Spesso i comportamenti alimentari disfunzionali – annotano ancora le due psicologhe - si accompagnano a patologie psichiatriche diverse, come i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore, i disturbi di personalità, che rendono complicata la gestione dei ragazzi. Il rapporto con il cibo, con il proprio corpo e con la propria forma fisica ha un enorme impatto sulla qualità della vita psichica, fisica, sociale e quotidiana: tutte le aree di vita ne sono toccate e questo aumenta l’importanza di un aiuto il più possibile precoce e che coinvolga l’ambiente di vita più prossimo”.
Esistono teorie scientificamente validate per comprendere i motivi alla base della vulnerabilità dei ragazzi, come la teoria biosociale DBT della regolazione emotiva (Dialectical Behavior Therapy ) che è un trattamento psicoterapeutico cognitivo comportamentale, sviluppato da Marsha Linehan. La vulnerabilità emotiva, che si manifesta con le sue tre caratteristiche principali: sensibilità, intensità e durata, ha basi biologiche ma anche ambientali. Cosa significa? “Se nasco vulnerabile, ma in un ambiente che dà valore ai miei vissuti e non ritiene inadeguate le mie sensazioni e le mie manifestazioni emotive, anzi le ritiene sensate rispetto a ciò che vivo – spiegano Giulia Rancati e Laura Rigobello - si presenteranno i comportamenti disfunzionali con minore probabilità, mentre se la mia esperienza emotiva viene banalizzata, non riconosciuta, non compresa, potrei aver bisogno di soluzioni alternative e più forti agli occhi degli altri per farmi accudire e riconoscere. Il comportamento alimentare disfunzionale sappiamo manifestarsi proprio in una fase, solitamente adolescenziale, in cui è fondamentale per i ragazzi sentirsi riconosciuti dall’esterno, ma anche riconoscersi pian piano nella definizione della propria identità”.