mercoledì 18 settembre 2024
Come sollecitare l’impresa per cui si lavora ad adottare comportamenti corretti e a raccontare in maniera trasparente le proprie politiche di sostenibilità ambientale e sociale
Pericolo socialwashing: «Ora un’alleanza con i media»
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Come i dipendenti, i clienti, gli investitori, ma anche i commercialisti, gli avvocati e i consulenti del lavoro possono stimolare e sollecitare l’impresa per cui lavorano o con cui collaborano ad adottare comportamenti corretti e a raccontare in maniera trasparente le proprie politiche di sostenibilità ambientale e sociale?
Questa è la domanda che Rossella Sobrero, che, da molti anni, si occupa di comunicazione, affiancando alla consulenza l’attività di saggista e docente, ha posto al centro del suo ultimo libro Pericolo socialwashing - Comunicare l’impegno sociale tra opportunità e rischi, edito da Egea.
In un contesto dove la sostenibilità è sempre più al centro dell’attenzione, i casi di washing sono aumentati e pure i neologismi con cui vengono individuate queste pratiche scorrette, dallo sportwashing alla shrinkflation fino al wokewashing, per citarne solo alcuni. Con la comunicazione che rimane la grande imputata: «Per chi li pratica l’obiettivo è dare ai consumatori un’immagine dell’organizzazione migliore rispetto alla realtà» ha spiegato l’autrice, specificando che, in generale, si parla di socialwashing quando, per esempio, un’azienda racconta una «conversione» al sociale che non corrisponde a un effettivo cambiamento nella gestione delle persone: si va dal rapporto poco corretto con i dipendenti fino al finto impegno nei confronti della comunità.

Per un’impresa non è sempre facile sposare una buona causa o prendere posizione su argomenti sociali controversi: quando decide di esporsi deve farlo con la consapevolezza che raccontare questo tipo di impegno può diventare pericoloso senza una solida reputazione e senza un convincimento pieno. «Oggi la narrazione dell’impegno sociale e ambientale è più credibile quando si riescono a rendicontare i risultati generati. Ma mentre l’impatto ambientale ha indicatori conosciuti, misurare l’impatto generato sulla comunità e sulle persone risulta ancora oggi difficile» ha spiegato Sobrero. D’altro canto i consumatori sono sempre più critici e diffidenti, comprano un prodotto o un servizio anche per i valori che porta con sé: per questo la comunicazione della sostenibilità è diventata un fattore in grado di condizionare la scelta d’acquisto.

Secondo la professoressa, «i giovani che studiano o hanno iniziato a lavorare mostrano una maggiore sensibilità sui temi ambientali e sono anche tra i soggetti più critici e diffidenti nei confronti dell’operato di istituzioni e aziende». Diverse ricerche evidenziano che nelle scelte di consumo dedicano grande attenzione alle dichiarazioni di impegno delle imprese e nel libro è stato riportato che già nel 2019 uno studio dell’Osservatorio PwC evidenziava che il 50 per cento degli intervistati tra Millennials e Generazione Z era disposto a pagare il 10 per cento in più per un prodotto realizzato in modo sostenibile, mentre per le generazioni precedenti la percentuale oscillava solo fra il 34 e il 23 per cento del campione. «Ovviamente, non sono solo i giovani. Assieme a loro, ci sono anche persone di altre generazioni che fanno parte di questo pubblico consapevole e attento – ha continuato la docente di Comunicazione sociale e istituzionale all’Università degli Studi di Milano e di Marketing non convenzionale all’Università Cattolica di Milano –. E seppur sia ancora minoritario, è bene che le imprese inizino ad ascoltare chi con i suoi comportamenti sta segnando la richieste di cambiamento in termini di sostenibilità».

E le fake news c’entrano molto di più di quanto immaginiamo con il washing, proprio «perché quando si diffondono informazioni false si sta facendo un’operazione scorretta che può mettere in difficoltà il consumatore e condizionare la sua scelta d’acquisto» ha aggiunto Sobrero. In entrambi i casi, si tratta di uso improprio dei media: dunque è grande la responsabilità dei «comunicatori che devono rifiutarsi di dare informazioni che non siano vere», così come dei «giornalisti chiamati a verifiche più approfondite»: serve un’allenza nel campo del giornalismo e della comunicazione. Contestualmente bisogna lavorare per migliorare le competenze delle persone in modo che riescano a distinguere non solo le notizie vere da quelle false, ma anche le pratiche scorrette di washing. Questa necessità da parte di tutti i consumatori, e più in generale degli stakeholder, vale a dire i portatori di interesse verso l’impresa, di sollecitarla e aiutarla a evitare il rischio di washing è uno degli aspetti più sfidanti per il futuro.

Il libro non solo ricorda che ci sono azioni e strumenti che possono mettere, almeno in parte, l’organizzazione al riparo da questo tipo di accuse, ma illustra anche con chiarezza, anche grazie a molti esempi, quali siano le principali declinazioni del socialwashing, con un approfondimento critico sul cosiddetto Copwashing. La COP28, tenutasi a Dubai a fine 2023, è stata definita «una grande operazione di washing»: un’occasione in cui non è stata considerata la dimensione sociale e nella quale «si è discusso di qualsiasi cosa fosse anche solo lontanamente legata all’ambiente senza però dedicare sufficiente attenzione ai problemi sociali collegati alla crisi climatica e alla situazione dei diritti umani nel paese ospitante» ha spiegato Sobrero, rimarcando che, se a parole sono tutti concordi quando si parla di sostenibilità ambientale nel considerare le ricadute che alcune scelte possono avere sulle persone e sulle comunità, nei fatti tutto questo è mancato a Dubai, e anche la società civile non ha fatto abbastanza pressione né ha messo sufficientemente in luce contraddizioni come «per esempio, alcune banche che sono state sponsor dell’evento pur continuando a finanziare i combustibili fossili» o il fatto che la COP28 è stata presieduta da Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato dell’Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), l’ente petrolifero degli Emirati Arabi Uniti, «ha fatto dubitare della reale intenzione di proseguire il percorso di abbandono delle fonti fossili di cui gli Emirati sono uno dei maggiori produttori al mondo».

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