martedì 17 settembre 2024
Una riflessione a quattro mani sulle criticità in cui versano le istituzioni e sulle strategie per risolverle nel libro "Salviamo la cosa pubblica. L'anoima smarrita delle istituzioni!
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Un filosofo e uno psicoanalista, attivi rispettivamente nell'Università e nel campo della Salute mentale, riflettono sulla particolare criticità in cui versano oggi le istituzioni pubbliche; lo fanno dai loro rispettivi punti di osservazione, ma commentando poi, ognuno di essi, le considerazioni dell’altro. L’intento è quello di individuare le risorse e i possibili spiragli – già in essere, da rilanciare o da inventare – per riconsegnare le istituzioni alla loro originaria vocazione di presidi di civiltà e, all’occasione, vere e proprie unità di crisi. Il libro – Salviamo la cosa pubblica. L’anima smarrita delle nostre istituzioni, Vita e pensiero – prende le mosse da una constatazione per certi versi desolante: l’infiltrazione di logiche privatistiche nel funzionamento dei servizi pubblici sta producendo una nuova forma di istituzionalizzazione. I suoi effetti sono particolarmente evidenti nella pianificazione “a tavolino” degli interventi e in quella standardizzazione delle pratiche che chiude ogni possibile varco all’imprevisto e al possibile emergere della domanda da parte dei cittadini o delle comunità.

Marc Fisher lo notava già nei primi anni Duemila, come se si stesse gradualmente, ma inesorabilmente, delineando una specie di «ontologia imprenditoriale», per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda, e giungeva alla conclusione che il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è la riduzione del cittadino al consumatore-spettatore, che arranca tra ruderi e rovine, sinistri sembianti di logiche burocratiche anonime o di quelle feroci e fascistizzate del capitale. Esattamente ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi, quando non siamo addormentati e assuefatti, fino a pensare che in fondo va tutto bene così, finché la nostra tranquillità di borghesi piccoli piccoli non viene troppo traumatizzata. C’è in effetti una scena memorabile e tragicomica de Il Dormiglione, celebre pellicola del ‘73 di Woody Allen, quando Luna, sedicente poetessa, si chiede, ma «perché mai dovrebbe esserci una resistenza?, il mondo è pieno di cose meravigliose!».Così, in questa epoca di privatizzazione crescente, la Cosa Pubblica, che dovrebbe essere la linfa vitale delle istituzioni repubblicane, è diventata una parola vuota, del tutto scollata dalla realtà delle persone, soprattutto di quelle che hanno più bisogno di aiuto, perché magari sono attraversate dall’esperienza del dolore.

Viene in mente quello che diceva sempre Michel Foucault: il dolore dei cittadini, la loro personale sofferenza umana – dice Foucault – non deve mai venir ridotta a uno «scarto muto» della politica. Nei primi due capitoli, il libro prova allora a difendere l’idea che non si possa aver cura delle persone senza aver cura delle istituzioni (e di chi vi opera), affinché ritornino ad essere quei necessari avamposti civili che intercettano i passaggi cruciali dell’esistenza – nascita, pubertà, vecchiaia, la morte stessa – ponendosi al servizio di un territorio e di una collettività senza, soprattutto lasciare indietro nessuno. Il terzo e quarto capitolo rappresentano un tentativo di dettagliare pratiche di resistenza alla de-umanizzazione delle istituzioni, soprattutto nei contesti cruciali della formazione e della salute mentale. Per quel che riguarda la scuola, non vengono proposte strategie; del resto, ne sono già state pensate e provate troppe. Restano però fondamentali alcune micro-tattiche creative, piccole mosse soggettive che disarticolano le prassi educative quotidiane e i percorsi formativi standardizzati. In fondo, sarebbe già tanto fare quel che ci ha insegnato la partigiana Bianca Bianchi, in Assemblea Costituente, ricordando ai colleghi che la scuola è una cosa seria e non rinviabile: «Impegnare l’alunno a discutere, invece di dare formule vecchie e ripetute». Quanto al campo della salute mentale, qui non c’è altro modo se non lavorare nella direzione dello sviluppo di comunità, nei quartieri e nei territori, coinvolgere le istituzioni (pubbliche del privato sociale), le amministrazioni e i cittadini nel rilancio di una coscienza collettiva che faccia leva sul capitale sociale già esistente (parrocchie, volontariato, associazioni sportive e culturali etc.). Purtroppo, al di là dei soliti proclami di rito, possiamo solo parzialmente contare su partiti e sindacati, ma l’importante è non far cessare la nostra voce.

Questo libro è ovviamente solo una goccia nel mare, ma ci consola e ci incoraggia la certezza di non essere soli in quest’opera di rianimazione della Cosa pubblica.Così, il quinto capitolo arriva al cuore pulsante della Cosa Pubblica che può ri-animarsi solo recuperando il filo che la lega alla comunità vivente. È come una sequenza di flash, come fosse un’intermittenza di immagini che appaiono nel buio squarciato dalla luce, il tempo che basta per intuire i contorni degli spazi politici, la topologia delle istituzioni repubblicane e le esperienze dell’essere insieme come umani che lì vi trovano adeguata ospitalità e dimora. Con una domanda che resta aperta e invita ogni lettrice, ogni lettore, se vorrà, a inventare insieme i modi e indovinare i tempi: che cosa significa essere in comune, che valore ha la dimensione del collettivo e in che modo essa si genera ed esige, come fosse un inderogabile imperativo di giustizia, istituzioni capaci di sostenerla e promuoverla?

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