Convinto che l’uomo fosse parte di un Tutto e che a forza di aggredire, dilaniare e mercificare la Terra la giovane società industriale avrebbe finito per compromettere il futuro dell’umanità, il 4 luglio 1845 lo scrittore Henry David Thoreau si allontanò dalla cittadina del New England dov’era nato e cresciuto, per raggiungere il vicino lago Walden, tra le foreste del Massachu-setts, e vi costruì una capanna in legno. In un rapporto intimo e simbiotico con quella natura selvaggia che così rapidamente stava cedendo il posto a fabbriche, palazzi e grandi infrastrutture, visse qui per due anni. «Quando ho bisogno di ricreare me stesso vado in cerca della foresta più buia, della palude più fitta e più impenetrabile e, a occhi cittadini, più tetra», scriverà in quel periodo, prendendo poeticamente le distanze da una società che prometteva la felicità attraverso il progresso tecnologico. Nei due secoli che ci separano dall’epoca di Thoreau molte cose sono successe: un terzo delle foreste globali, per esempio, è andato distrutto; il cambiamento climatico ha spinto il pianeta verso un punto di non ritorno; l’aumento della popolazione mondiale ha trasformato le città in organismi insostenibili ed escludenti; e, ancora, il digitale ha messo in difficoltà la democrazia partecipativa mentre la crisi del capitalismo ha cronicizzato diseguaglianze di tipo economico e sociale. Soprattutto, però, è comparso un virus più piccolo di un micron che all’improvviso ha sconvolto il mondo, costringendoci a riesaminare il nostro complicato rapporto con la biosfera e con la tecnosfera e a riflettere su noi stessi, sulle nostre comunità, sulle nostre città. «Immaginare il futuro è diventato, con la pandemia, un esercizio arduo», ammette Stefano Boeri, l’architetto e urbanista milanese, da poco guarito dal Coronavirus, che con il suo Studio ha approfondito e sperimentato la relazione tra l’architettura e la Natura.
«È come se fossimo ancorati a un presente cupo che non ci lascia tregua e ci obbliga a svilire, giorno dopo giorno, le consuetudini più preziose del nostro abitare gli spazi. Ma questa difficile esperienza – afferma – può diventare un’opportunità per ripensare alla radice la logica e le forme della vita urbana, per immaginare un pianeta percorso da grandi corridoi della biodiversità dove le foreste e le città trovano un nuovo equilibrio, dove i borghi storici tornano a essere comunità di vita e le metropoli diventano arcipelaghi di quartieri autosufficienti». Boeri, il cui Bosco Verticale, edificato nell’area di Porta Nuova a Milano, rappresenta uno dei più noti e celebrati esempi al mondo di 'forestazione metropolitana' – tanto da essere esportato in Cina, in Messico e in altri Paesi – , parla di «una nuova e necessaria alleanza tra le città, fino ad oggi massima espressione della civiltà umana, e il mondo delle foreste, dei boschi, delle montagne, degli oceani», e scorge nelle «metropoli che inglobano nella loro estensione porzioni di natura » una possibile risposta alla sfida lanciata dal Covid 19. Tuttavia, il progettista è convinto anche di un’altra cosa: che «le città devono anche cambiare nella loro stessa struttura», poiché «i grandi attrattori di folle e congestione su cui sono nate (non solo le fabbriche, i mall, gli stadi, i mercati generali, e gli headquarter di uffici) sono oggi in grande difficoltà». Ecco, dunque, la necessità di 'cominciare a pensare a una vita urbana in cui ogni cittadino ha i servizi di prima necessità a una distanza congrua, entro un raggio geografico di cinquecento metri e un raggio temporale di quindici-venti minuti; a piedi o, al massimo, in bicicletta. Servizi che comprendono gli spazi per il lavoro, quelli commerciali, culturali e scolastici ma anche la sanità stessa». Se per Thoreau, uomo romantico dell’Ottocento, il mondo poteva preservarsi solo grazie alla wilderness, la natura selvaggia, per Boeri la 'salvezza' passa anche per le dimensioni di mobi-lità, prossimità e circolarità.
«Dobbiamo imparare a muoverci non più con auto di proprietà ma condividendo uno stock di vettori privati che non usino carburanti fossili e smettano di occupare in modo estensivo le superfici delle nostre strade» inoltre, «dobbiamo valorizzare un’economia circolare a chilometro zero in cui la filiera agro-alimentare la fa da padrona, tutelando le aree limitrofe alle grandi città». E il suo Bosco Verticale, un modello abitativo ed innovativo ad alta densità, in cui la natura (legno, alberi, piante) è il suo elemento principale, è stato progettato anche per questo: per produrre energia sostenibile e custodire la preziosa biodiversità tra specie animali e vegetali. «Una casa per alberi che ospita anche umani e volatili», l’ha definita l’architetto, consapevole che «qualsiasi innovazione, anche la più radicale, nasce da un equilibrio instabile tra ricerca tecnologica». Se guardiamo all’Italia durante e dopo la pandemia, però, al «Paese resiliente e pronto al cambiamento» quale siamo, tale equilibrio rischia di essere risucchiato in un ingorgo burocratico fatto di «strategie nazionali per le aree interne, leggi nazionali per i piccoli comuni, politiche economiche e ambientali messe in atto dal ministero dell’ambiente e di quelle specifiche per i piani di ricostruzione post-sisma». Boeri ritiene che l’invenzione del Bosco Verticale sia «certamente un atto di grande discontinuità nelle sfere dell’architettura e dell’urbanistica, ma che non sarebbe mai stata possibile senza le intuizioni dei Radicali italiani, i progetti di Friedensreich Hundertwasser a Vienna, il lavoro dei Site negli Stati Uniti, le visioni di Joseph Beuys nell’arte del Novecento». Un progetto innovativo, anche se non esente da critiche per via della grande quantità di cemento impiegato, che, a conti fatti, è «forse più interessante dal punto di vista del rapporto tra presenza di una biodiversità vegetale e comportamenti sociali e umani, piuttosto che come innovazione architettonica in sé», come egli stesso riconosce. Chissà quali parole, invece, avrebbe usato Thoreau per descrivere le due rigogliose torri residenziali milanesi o le ampie giungle urbane in costruzione a Prato; oppure, ancora, le città trasformate in cime d’albero (Treetopia, secondo la definizione inventata da Alan Simson, Professore della Leeds Beckett University) o gli altri progetti di 'sopravvivenza ambientale per la città contemporanea' in Europa, in Asia o nel continente americano. Chissà come le avrebbe raccontate, lui, il mistico che aveva trovato conforto in una natura idealizzata e che sosteneva come pochi dei suoi contemporanei avessero capito che «l’esistenza dell’uomo nella natura è la più divina e la più stellare di tutti i fatti».