Un Piano straordinario per il digitale che si focalizza su quattro pilastri fondamentali: sviluppo delle competenze per il lavoro che cambia, accelerazione del Piano triennale per la Pubblica amministrazione digitale, trasformazione digitale delle imprese; sviluppo reti 5G e banda ultralarga. Queste le proposte presentate questa mattina in occasione del convegno Investire, accelerare, crescere, realizzato da Confindustria Digitale in collaborazione con Luiss Business School.
L’Italia, fra le prime dieci nazioni industrializzate del mondo, è da anni agli ultimi posti nella classifica del Desi, indice attraverso cui la Commissione Europea monitora lo stato di attuazione dell’Agenda digitale nei diversi Stati membri. Nel 2014, anno di lancio del Desi eravamo al 25° posto su 28 Paesi dell'Unione Europea. Nel 2019 ci ritroviamo al 24° posto. In cinque anni siamo riusciti a scalare un solo posto, grazie all’accelerazione subita dagli investimenti privati e pubblici nelle reti di telecomunicazioni a banda ultralarga fissa e mobile (19°) e allo sviluppo dell’Open Data (18°). Per tutti gli altri fattori abilitanti rimaniamo molto indietro: competenze (26°posto), uso di internet (25°), integrazione tecnologie digitali nelle imprese (23°), interazione tra Pa on line e utenti (27°).
In un’economia globale che ha fatto della digitalizzazione il motore dello sviluppo, il ritardo digitale italiano si è manifestato a cascata su tutti gli altri indici. Nel stesso periodo, 2013-2018, l’Italia ha registrato un tasso medio di crescita del Pil dell’ordine dello 0,5% annuo, di due punti percentuali sotto la media dei Paesi Ocse pari a 2,16% annuo. Cioè in cinque anni abbiamo sempre mantenuto un divario di crescita intorno al 2% annuo. Sulla competitività, misurata dal Global Competitiveness Index (Gci) del World Economic Forum per 140 Paesi, dal 2014 al 2018 siamo passati dal 49° posto al 31°, ma nel frattempo gli altri Paesi con cui ci confrontiamo, sono cresciuti con un tasso superiore al nostro. La Spagna è passata dal 35° al 26° posto, la Francia dal 23° a 17°, il Regno Unito dal 9° all’8°, la Germania dal 5° al 3°. Sulle perfomance di innovazione nel quinquennio siamo addirittura tornati indietro. Secondo l’Innovation Scoreboard (Eis) nel 2014 l’Italia si trovava al 15° posto nell’Ue 28, alla testa dei “Paesi moderatamente innovatori”, gruppo che comprende quegli Stati membri le cui perfomance innovative si collocano con percentuali tra il 50 e il 90% al di sotto della media europea. Nel 2018 siamo scesi al 18 posto, mentre la leadership dei Paesi moderatamente innovatori è passata al Portogallo, che si colloca al 13° posto. Francia, Germania e Regno Unito si trovano tutti nella fascia dei Paesi leader dell’innovazione.
«Non dobbiamo ricominciare da zero, ma valorizzare e accelerare i piani e progetti già in atto - ha spiegato Cesare Avenia, presidente di Confindustria Digitale -. Va data priorità alle azioni che hanno maggior impatto e capacità di effetto leva sull’economia, adottando in una logica di sistema le metodologie di lavoro che sono state alle base dei casi di successo, assicurando stabilità e continuità alla governance dei piani, ai finanziamenti e alla disponibilità di risorse umane qualificate per portarli a compimento».
Per Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School «è fondamentale diffondere la cultura del digitale, fare formazione a tutti i livelli, creare figure con nuove competenze e cittadini digitali del futuro. L'Italia oggi non ha una strategia complessiva per le competenze digitali che invece sarebbe fondamentale per ridurre il divario digitale e ampliare l’inclusione sociale».
«Non si passa al fianco della trasformazione digitale: o ne siamo protagonisti o la subiamo. E se la subiamo il rischio principale, a lungo termine, è politico, non economico», avverte il ministro dell'Economia e delle Finanze Giovanni Tria. Il titolare del Mef ricorda anche che «stiamo disperdendo talenti, ma anche risorse», basti pensare che «la fuga di cervelli all'estero che sta conoscendo l'Italia ci fa perdere circa 14 miliardi di euro l'anno, poco meno dell'1% del Pil». Ogni rivoluzione economica ha avuto la sua «materia prima», spiega il ministro, e oggi «l'oro, il carbone, il petrolio sono stati sostituiti dai dati. Dalla massa di informazione creata dipende la capacità di generare innovazione, nuovi servizi, nuove tecnologie», dice. Differentemente dal passato «la produzione di questa materia prima è indipendente dalla possibilità di utilizzarla, questo nuovo petrolio lo produciamo anche in Italia ma ciò che importa - evidenzia il ministro - è chi la possiede realmente e riesce a sfruttarlo». Da qui il rischio politico e la domanda per Tria è: «Come mantenere una forma di sovranità su una risorsa così fluida? Come garantire che come sistema Paese si possa essere non solo utenti, ma anche creatori digitali?». In Ue se ne sta discutendo, riconosce Tria, ma «come Continente europeo stiamo accumulando un ritardo rispetto ad altri player globali, sia per carenza di infrastrutture digitali sia per la difficoltà delle nostre imprese d'innovazione, delle nostre start up, di trovare un contesto favorevole a crescere e diventare».
Ecco perché il ministro dice di «accogliere molto favorevolmente» l'iniziativa di Confindustria Digitale per un
Piano strategico. A riguardo sottolinea: «Sono convinto che si vinca la sfida del digitale investendo sulle persone», occorre «cambiare il nostro modo di concepire le competenze professionali, visto che il 65% dei bambini che iniziano la scuola primaria farà quasi sicuramente un lavoro che al momento ancora non esiste. Le nuove tecnologie chiederanno nuove professioni, non solo occorre ripensare il ruolo dell'informatica nella formazione obbligatorie, ma bisogna essere pronti a investire in una formazione linguistica più diversificata».