«E se la soluzione non fosse tecnica? E se la strada non fosse necessariamente quella delle riforme?». Di fronte al nuovo dato negativo del Pil, che indica ancora la forte sofferenza dell’economia reale, Michele Tiraboschi, giuslavorista dell’Università di Modena, allievo prima continuatore poi dell’opera di Marco Biagi si interroga sulle reali priorità per far rialzare il Paese. «In questi ultimi quattro anni le abbiamo provate tutte: riforme strutturali (lavoro e pensioni), misure fiscali ad hoc e incentivi alle imprese, tagli lineari alla spesa, bonus di 80 euro. Stiamo cercando inutilmente una soluzione tecnica e contabile a un cambio di paradigma – geopolitico, tecnologico e demografico – che le stime Istat purtroppo non registrano. Parlo del degrado morale del Paese e della classe dirigente
in primis e della inevitabile assenza, in tutti i provvedimenti emergenziali degli ultimi anni, di una visione e di una risposta anche di tipo antropologico ai tumultuosi cambiamenti economici e sociali in atto su scala planetaria.
Ma le riforme di sistema – politica, amministrazione, giustizia ecc. – non sono la condizione necessaria per far ripartire l’economia e il lavoro?Le riforme istituzionali sono importanti se procedono in parallelo con una rinascita culturale e morale del Paese. La vera sfida, ripeto, rimane quella educativa, a tutti i livelli, e la capacità di agire in ogni campo nella prospettiva della ricerca del bene comune. È un compito che spetta a tutti noi, nei nostri rispettivi campi di azione, e conseguentemente alla politica che è lo specchio del Paese.
Se non riparte l’economia, però, difficilmente potrà tornare a crescere l’occupazione. La riforma del mercato del lavoro ipotizzata nella legge delega può contribuire alla ripresa o è un’illusione?Per come è impostata la riforma del lavoro rischia di essere l’ennesima delusione e occasione mancata. Al Paese non serve la quinta riforma delle regole del lavoro in cinque anni, ma comprendere il cambiamento del lavoro, la rivoluzione imposta dai mutamenti ambientali, demografici, tecnologici che stanno mettendo in ginocchio la nostra economia e il nostro sistema di welfare. Non sarebbe male, allora, tornare alla versione originaria del Jobs Act, quella presentata da Renzi a gennaio di quest’anno, prima di diventare presidente del Consiglio, che aveva una nota bene articolata con al centro i settori produttivi, le imprese, le competenze, la sfida educativa e formativa della forza lavoro del futuro e solo da ultimo le regole e la semplificazione del quadro regolatorio del lavoro.
Gli ultimi due dati mensili sull’occupazione mostravano un incremento di 100mila unità degli occupati. Merito della liberalizzazione dei contratti a termine? È la flessibilità che dà frutti?Nonostante tutto, il mercato del lavoro italiano è dinamico e si creano ancora opportunità di lavoro che vanno colte. C’è una parte del Paese e del sistema produttivo in declino e un’altra parte che invece cresce con forza e ancora dimostra capacità di primeggiare sui mercati internazionali. La flessibilità è utile se aiuta le imprese a stare sui mercati e alle persone a trovare un lavoro regolare, anche temporaneo, in attesa di occasioni migliori e coerenti alle proprie aspettative di vita e di lavoro.
I giovani restano la porzione di popolazione in maggiore sofferenza sul piano del lavoro. Quali misure specifiche si potrebbe assumere per loro?Il mio pallino resta l’apprendistato, la grande occasione persa dal nostro Paese. Un apprendistato inteso come scuola dei mestieri e non certo come lavoro flessibile, offerto ai giovani quale valida occasione di apprendimento e crescita, non solo professionale, verso quei settori e quelle specializzazioni che sono richieste dalla imprese e che aiutano poi il sistema Paese a rimanere competitivo e crescere nella economia moderna.