Il governo sud-sudanese e i ribelli hanno firmato in questi giorni un cessate il fuoco. La crisi cominciata nell’agosto scorso con la rimozione del vice-presidente Machar, attualmente alla guida dei ribelli, ha poi vissuto un’escalation di violenza che in cinque settimane ha generato diecimila morti, mezzo milione di rifugiati di cui circa 76mila sono sotto la protezione dell’Onu. Il Sud Sudan è il Paese più giovane del mondo. Grande quanto la Francia ha una popolazione di circa dieci milioni di persone di cui il 43% ha meno di 14 anni e di cui almeno la metà vive in condizioni di estrema povertà. Il 40% della popolazione deve camminare almeno 30 minuti per raggiungere una fonte di acqua potabile. La vita media è di 54 anni, il tasso di fertilità è superiore a 5 bambini per donna e su ogni mille nati vivi 36 bambini non raggiungono il primo anno di età. Il 57% delle donne con più di 15 anni vive con l’Hiv e la spesa sanitaria procapite è di soli 32 dollari in un anno.A dispetto di ciò, il Sud Sudan aveva attirato l’attenzione della comunità internazionale, e in particolare della Cina, grazie delle ingenti risorse petrolifere. Nessuna sorpresa quindi che molti osservatori abbiano posto l’accento sulla gestione del petrolio come causa principale dell’instabilità politica. La dipendenza dal petrolio, del resto, era stata chiara quando il governo aveva deciso il blocco della produzione a causa di conflitti con il Sudan. Il conseguente squilibrio macroeconomico aveva generato una diminuzione del Pil procapite del 50% nel 2012 e un vertiginoso aumento del livello dei prezzi del 47%.
In realtà, l’equazione "petrolio uguale instabilità" è da considerarsi solo una descrizione parziale del problema. Il nodo da sciogliere per lo sviluppo futuro del paese è la crescita di altri settori produttivi e, in particolare, dell’agricoltura. L’81% della popolazione, infatti, vive in aree rurali ed è strettamente dipendente dal consumo di cereali. Negli ultimi anni, la buona notizia era stata che successivamente all’accordo di pace con il Sudan nel 2005, la produzione agricola aveva registrato miglioramenti. Negli anni tra il 2009 e il 2011, la produzione cerealicola era aumentata in particolare nelle aree del paese in cui erano stati dislocati i Caschi blu dell’Onu, tanto da suggerire una causalità positiva diretta tra questi e la produzione agricola. Nel 2012 anche la superficie coltivata a cereali era aumentata del 26% rispetto al 2011. Inoltre, nonostante un terzo delle famiglie dipendesse ancora da assistenza alimentare, nel giugno del 2013 il World Food Program registrava un miglioramento nella disponibilità di cibo in tutte le regioni e, riportava aspettative positive tra i contadini per i nuovi raccolti. Questi dati confermavano un concetto semplice, ma forte: la sicurezza e la pace sono beni pubblici in grado di generare ricadute positive per le attività produttive di una società stimolando la creazione di valore aggiunto.
Detto più semplicemente, la pace può costituire il volano che stimola e consente a imprenditori la possibilità di investimenti produttivi anche di misura apparentemente trascurabile per le statistiche, ma decisive per lo standard di vita di molte famiglie. Questa idea getta nuova luce sul ruolo potenziale delle operazioni di peacekeeping. Di queste, nate e pensate secondo una logica militare e di deterrenza per favorire e mantenere gli accordi di pace, si è sottovalutato il ruolo più ampio che potrebbero ricoprire. Viceversa, se ripensate e riorganizzate, esse potrebbero rappresentare una prima e immediata risposta ai bisogni dei territori. Non solo stimolando la domanda locale di beni e servizi, ma anche fornendo sicurezza ai coltivatori nei siti produttivi ovvero sostenendo l’accesso ai mercati agricoli. Se le operazioni di peacekeeping possono anche dare il via a una più vitale attività economica, il percorso che, però, conduca fuori dalla spirale della violenza, della povertà e del sottosviluppo non può non essere caratterizzato da una politica economica che, da un lato, favorisce le determinanti di lungo periodo della produttività, vale a dire sanità e istruzione e, dall’altro, consenta la diversificazione produttiva.A questo proposito, il Sud Sudan propone uno schema purtroppo noto. Tante armi, ma pochi ospedali. Nel 2011, il Sud Sudan destinava quasi il 10% del proprio Pil alle spese militari e meno dell’1% alla spesa sanitaria. Questo tipo di scenario, purtroppo, non riguarda solo il Sud Sudan, ma anche paesi dilaniati da conflitti interni in corso o del recente passato e che interpretano lo sfruttamento delle risorse petrolifere come la strada per la crescita. Rientrano tra questi, Angola, Nigeria e Ciad dove sono chiari il favore per la spesa militare e il minore interesse per sanità e educazione. La distorta allocazione delle risorse pubbliche rischia di depotenziare e non favorire lo sviluppo e, soprattutto rischia di infiammare nuovamente sanguinosi conflitti interni. Inoltre, la mancanza di diversificazione e investimenti pubblici in settori produttivi rende più facile il reclutamento dei giovani in corpi armati governativi o ribelli. In altre parole, la chiave di volta delle politiche economiche post-conflitto è la capacità di sviluppare politiche economiche che superino la dipendenza da una sola risorsa naturale, in questi casi il petrolio.
Come è possibile per la comunità internazionale intervenire? Sovente, gli aiuti allo sviluppo sono messi sul banco degli imputati per la loro inefficacia e per alimentare strutture clientelari e predatorie. Queste critiche sono in alcuni casi giustificate e, in altri, speciose. In linea generale, comunque, gli aiuti allo sviluppo non possono in ogni caso costituire il motore di uno sviluppo economico sostenibile nel tempo. Questo può realizzarsi, seppur con grande difficoltà, solo in presenza di politiche economiche che disinneschino gli incentivi all’appropriazione violenta di rendite economiche da parte di governi o signori della guerra. Nel lungo periodo, la comunità internazionale può utilizzare altri strumenti.La condizionalità del Fondo Monetario Internazionale può essere un esempio. I governi di molti paesi ne rispettano le linee guida in modo da aver accesso a linee di credito internazionale. La condizionalità, però, deve essere strutturalmente ripensata. Essa è stata ideata per garantire la solvibilità dei paesi debitori e fronteggiare gli squilibri di natura macroeconomica di breve periodo senza eccessivi riguardi per la natura e la composizione delle variabili aggregate. In parole più semplici, la condizionalità nella sua forma attuale tiene conto di grandezze come il Pil e il debito senza analizzare puntualmente i meccanismi che sottendono alla loro formazione.
Difficilmente in questa forma essa potrà costituire uno strumento capace di far uscire i paesi da condizioni di povertà e, in particolare, di disinnescare le determinanti di conflitti civili. Per la classe dirigente di un paese che dispone di risorse petrolifere, sarà più facile puntare tutto sul loro sfruttamento garantendosi in questo modo arricchimenti personali, solvibilità e riconoscimento internazionale, piuttosto che investire in politiche di sviluppo di lungo periodo incentrate sullo sviluppo del capitale umano e della diversificazione produttiva. La condizionalità potrebbe essere utilizzata per invogliare un cambio di rotta dei governi nell’allocazione della spesa pubblica.La tragedia umanitaria del Sud Sudan rappresenta quindi solo l’ultimo caso di una serie di insuccessi nella storia africana. La comunità internazionale può avere un ruolo nell’aiutare queste popolazioni a uscire dalla spirale della povertà e della guerra, ma per fare questo deve ripensare in maniera drastica alcune delle politiche militari ed economiche che fino ad ora sono spesso state più funzionali ai bisogni delle organizzazioni internazionali incaricate di attuarle, che non mirate alla risoluzioni dei problemi che si proponevano di affrontare.