A quasi quattro anni dalla firma dell’Accordo di Parigi per la riduzione delle emissioni di CO2, le maggiori economie del pianeta, quelle del G20, non sono in traiettoria per raggiungere gli obiettivi fissati in quello storico accordo. Tuttavia c’è ancora spazio per rimettersi sulla rotta giusta. Come sempre è una questione di volontà politica, in particolare di decidere dove più serve allocare risorse e da dove serve invece distoglierle. Solo che bisogna farlo in fretta, perché la crisi climatica non aspetta.In sintesi è questo il messaggio dell’ultimo rapporto Brown to Green di Climate Transparency, l’analisi più completa al mondo sulla performance dei paesi del G20 in campo climatico, energetico, di sostenibilità delle scelte finanziarie. Per farsi un’idea della situazione, basti dire che nel 2018 le emissioni di CO2 dei Paesi del G20 non solo non sono diminuite ma sono aumentate. Gli obiettivi climatici fissati al 2030, inoltre, risultano in generale insufficienti per raggiungere i target di Parigi. È dunque l’ora di essere più ambiziosi su una serie di fronti e naturalmente, dato che l’uso di combustibili fossili è la prima causa del riscaldamento del pianeta, nel mirino ci sono le fossili.Del resto le fossili sono state nel mirino anche della storica decisione presa pochi giorni fa dalla Banca europea per gli investimenti, destinata con ogni probabilità a segnare un punto di svolta e che si può considerare paradigmatica di quanto servirebbe in ambito G20: la Bei ha deciso infatti di porre fine al finanziamento di progetti legati a tutte le fonti fossili, gas compreso, a partire dalla fine del 2021; di accelerare fortemente gli investimenti (un trilione di euro da sbloccare nel decennio fino al 2030) in ambiti come energie rinnovabili ed efficienza energetica; di allineare tutte le attività di finanziamento con gli obiettivi di Parigi a partire da fine 2020.La prima questione all’ordine del giorno per i Paesi del G20 indicata nel report di Climate Transparency, quanto a strategie di adattamento e mitigazione alla crisi climatica, sono appunto i sussidi alle fonti fossili. Guardiamo all’Italia: nel 2017 ne ha erogati per 11,6 miliardi di dollari, il 98% al consumo e il 2% alla produzione; nel 2008 ammontavano a 3,1 miliardi di dollari, anche se il picco si è toccato nel 2014 con quasi 17 miliardi di dollari.
L’imperativo è dunque eliminare gradualmente le sovvenzioni ai combustibili fossili, al più tardi entro il 2025. Inoltre, sviluppare una carbon tax (una tassa sulle emissioni di CO2) o un sistema di scambio di quote di emissione a livello nazionale. Sono indicate poi altre misure riguardo ai trasporti (meno auto private e più trasporti pubblici, più mobilità in sharing), all’efficienza energetica degli edifici, all’utilizzo delle foreste come serbatoio netto di emissioni (blocco all’espansione di aree residenziali, creazione di nuove foreste).La "ricetta" che il report offre per l’Italia è grosso modo quella che vale per ogni altra economia avanzata. Si pensi che complessivamente a livello G20 nel mix energetico la quota delle fossili resta largamente dominante (82%) e che i sussidi alle fossili nel 2017 sono ammontati a 127 miliardi di dollari, anche se in un certo numero di Paesi hanno cominciato a ridursi.Non si tratta di ricette nuove. Per stare in Italia, come già nei precedenti anche nell’ultimo report di Asvis - l’Alleanza italiano per lo Sviluppo sostenibile di cui è portavoce il professor Giovannini - si sottolineava la necessità urgente di procedere all’eliminazione dei sussidi dannosi per l’ambiente.Si tratta, come si diceva, di decidere dove mettere e dove togliere risorse finanziarie. Ovvio che il tema sia stato toccato in numerosi eventi nell’ambito della Settimana Sri promossa dal Forum per la Finanza sostenibile in questi giorni. C’è da aspettarsi che se ne parlerà anche domani, nell’evento conclusivo ospitato a Roma dalla Cisl, dove il focus sarà sulle politiche di investimento sostenibile e responsabile (Sri) degli investitori istituzionali, fondi pensione in primis. Perché è vero che le politiche energetiche sono decise dai governi, ma se anche il mercato sceglie in modo netto da che parte stare, sicuramente aiuta.