Se l’Italia non tornerà presto alla crescita economica e alla ripresa del suo settore industriale rischia un salto all’indietro di decenni. La priorità della sua intera classe dirigente deve essere quindi una sola: tornare a crescere. All’assemblea annuale di Confindustria il clima è pesante. Il presidente Giorgio Squinzi parla con tono sommesso ma lancia l’ennesimo allarme. Racconta di un Paese che ha perso otto punti di Pil in sei anni, dove la produzione è crollata di un quarto, con punte del 40% in settori chiave come l’edilizia. Dove sono sparite 70mila imprese manifatturiere e 1,4 milioni di occupati. Una voragine produttiva, sociale, umana. Che ha cambiato la geografia economica. Il Sud soffre come non mai e il suo sforzo è «una sfida per la sopravvivenza». Ma per Squinzi è la "questione settentrionale" la vera cartina di tornasole della recessione italiana. Perché il Nord oggi si trova «sull’orlo di un baratro economico che trascinerebbe tutto il Paese indietro di mezzo secolo, escludendolo dal contesto europeo che conta». Un’affermazione che Confindustria sostanzia con i dati sul calo del Pil pro capite: tra il 2007 e il 2011 è diminuito di 1.097 euro nel Sud, di quasi 2.400 in Piemonte, di 2.540 nel Nord-ovest.Alla deriva economica del Paese occorre reagire – è l’appello del presidente di Confindustria al governo –con un «programma di modernizzazione e riforme» in una «netta discontinuità con le logiche di breve periodo del passato». Squinzi si rivolge direttamente al premier Enrico Letta, intervenuto all’assemblea con un breve intervento di saluto: «Siamo pronti a supportare l’azione del governo con gli investimenti», ma servono «misure concrete per l’aumento rapido del tasso di crescita e dell’occupazione». A partire da un fisco meno «punitivo» per il lavoro. Non bastano le buone intenzioni. Senza «interventi decisi» la crescita non andrà oltre un +0,5% annuo, e sarà «del tutto insufficiente a creare occupazione». E la mancanza di lavoro «è la madre di ogni male sociale». Con Letta, Squinzi trova un terreno comune sulla necessità di rilanciare soprattutto l’industria, la manifattura. Ma fa presente che servono interventi «non a costo zero, ma a saldo zero». Bisogna muovere risorse, con una «ricomposizione di entrate e uscite» per «promuovere la crescita senza intaccare la solidità del bilancio, anzi rafforzandola proprio grazie a una crescita più elevata». I conti, insomma, devono tornare sollecitando l’economia a crescere. Correggendo quindi quella ricetta dell’austerità che ha messo l’Europa e l’Italia su una «strada troppo ripida» e ha «aggravato la recessione».Con la nave Italia nella tempesta, Confindustria puntella e si aggrappa al governo in carica, che Squinzi definisce «un buon risultato, considerato l’esito elettorale». «Se sarà il governo della crescita e del lavoro lo sosterremo con tutte le nostre forze». Squinzi chiede sostegno agli investimenti, una riduzione del cuneo fiscale, (arrivato al 53% del totale) «eliminando il costo del lavoro dalla base imponibile Irap e tagliando di almeno 11 punti gli oneri sociali che gravano sull’impresa». Rilancia l’allarme su una stretta creditizia «senza precedenti nel dopoguerra» che va contrastata anche sviluppando «canali alternativi al credito bancario. Ma vuole anche «più flessibilità in ingresso e nell’età del pensionamento». Con un’avvertenza: non bastano «aggiustamenti marginali, inutili se non dannosi». Ma al governo, Squinzi lancia anche un primo secco altolà, esprimendo «contrarietà» al modo in cui ha trovato le nuove risorse per la cassa in deroga. Le coperture arrivano infatti da fondi per l’occupazione, le politiche attive e la produttività e «vanno reintegrate». Altrimenti c’è «il rischio di generare altra disoccupazione.Nella relazione non manca l’appello a una riforma delle istituzioni, alla semplificazione e riorganizzazione delle amministrazioni e a un’accelerazione della giustizia «ripensando il principio dei tre gradi di giudizio».