C’è chi ritiene si possa investire su qualsiasi cosa. C’è, invece, chi crede vi sia un limite, anche se non fissato da leggi o regolamenti. E che determinati prodotti o attività debbano essere in qualche modo messi al riparo da dinamiche dei mercati finanziari nelle quali si fa sempre più fatica a scorgere una logica o un’utilità collegate all’economia e alla vita reali. Poiché il più delle volte sembrano animate unicamente dalla ricerca del massimo profitto nel più breve tempo possibile, incuranti delle conseguenze.È il caso degli investimenti nei prodotti finanziari derivati che hanno a oggetto le commodity agricole, le materie prime alimentari: frumento, riso, soia e così via. Negli ultimi anni numerose campagne di sensibilizzazione e denuncia hanno messo sul banco degli imputati la speculazione sul cibo. Accusandola di essere non l’unica ma una delle principali cause dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e soprattutto della loro volatilità, quindi anche delle conseguenti crisi alimentari. Per indicare la trasformazione del cibo in commodity si è addirittura coniato un neologismo,
commodification.L’indignazione suscitata da tali campagne nell’opinione pubblica ha cominciato a produrre risultati. Nel senso che gli investitori attivi su questi mercati hanno iniziato a domandarsi se valesse la pena continuare, mettendo però a rischio la propria reputazione, o se non fosse più saggio frenare o interrompere del tutto.Barclays, ad esempio, la banca britannica divenuta tristemente celebre per il coinvolgimento nello scandalo legato alla manipolazione del tasso d’interesse Libor, ha dichiarato di recente di voler interrompere l’attività sulle commodity agricole effettuata attraverso i fondi hedge. Dichiarazioni simili erano già arrivate dai francesi di Bnp Paribas e Crédit Agricole, dai danesi di Nordea, dagli austriaci di Volksbanken e dalle tedesche Commerzbank, Deka-Bank, Landesbanken. Mentre l’Ad di Deutsche Bank in una recente audizione al Bundestag ha ricevuto critiche per aver difeso la decisione del suo istituto di continuare a operare, dopo una sospensione per un certo periodo, sulle commodity agricole.In Francia si sta provando ad andare oltre: nel progetto di riforma bancaria, si parla infatti di vietare alle banche la speculazione in proprio sulle materie prime agricole. Se ne discute anche a livello comunitario, con forti sollecitazioni provenienti da reti internazionali di Ong, come Oxfam, che da anni lanciano l’allarme sulla speculazione sul cibo.Emblematico, poi, il caso di Calstrs, il fondo pensione degli insegnanti della California, che già nel 2010 ridusse drasticamente i suoi investimenti nel mercato delle commodity (dai 2,5 miliardi di dollari che erano nelle intenzioni a soli 150 milioni di dollari). A fargli cambiare idea furono le organizzazioni aderenti alla campagna
Stop gambling on hunger, fra cui la coalizione di investitori religiosi Iccr (
Interfaith center on corporate responsibility, vi aderisce anche Etica sgr, la società di gestione del risparmio di Banca Etica) che nel 2012 ha stilato delle linee guida per l’investimento responsabile nelle commodity agricole.C’è chi dice che i passi indietro degli investitori sono in parte dovuti alla caduta dei profitti che il mercato delle commodity ha scontato nell’ultimo anno. E chi rileva che alcuni, come Barclays, pur chiudendo il trading in proprio sulle commodity non cesseranno però l’emissione di prodotti che permettono ai propri clienti di continuare a farlo.Si tratta comunque di segnali indicativi di una riflessione in corso a livello internazionale, che ha trovato spazio anche al World social forum svoltosi a Tunisi la settimana scorsa. La società civile, infatti, ha ormai scoperto quali sono le strade per influenzare dal basso la finanza verso comportamenti più responsabili: sono sì lunghe e tortuose, ma comunque percorribili. E potenzialmente anche molto efficaci.