venerdì 6 settembre 2024
La Bce ha condotto un’inchiesta fra 51 istituti europei sui metodi per misurare le perdite legate a sei fattori di rischio, dalla crisi energetica all'inflazione elevata
La sede della Bce a Francoforte

La sede della Bce a Francoforte

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Se osservi la finanza non con gli occhi dell’iniziato ma con quelli semplici della logica, tutto sembra tutto assurdo. Prendiamo una notizia dal Sole 24 Ore del 30 luglio. La Bce annuncia che sta lavorando ad una regolamentazione sulla misurazione, quantificazione e copertura dei rischi cosiddetti “nuovi” o “emergenti”. Si tratta di quei rischi che, sorti all’improvviso, non sono sostenuti da dati storici degli ultimi 10-15 anni e quindi non possono essere valutati con i classici modelli in uso nelle banche.

Ecco l’elenco: approvvigionamento energetico, scarsa resilienza delle catene di valore, instabilità geopolitica, elevati tassi d’interesse, alta inflazione, ambiente e cambiamento climatico.

La Bce ha condotto un’inchiesta fra 51 banche europee, fra le circa 100 sottoposte alla sua vigilanza diretta, sui metodi adoperati per misurare le perdite potenziali dovute a questi rischi “nuovi” e sul loro impatto sulla classificazione dei crediti. La maggior parte delle banche ha riconosciuto di non essere in grado valutare questi rischi all’interno di un modello statistico funzionale e validato, a causa dell’insufficienza di dati storici. Queste banche sono grandi aziende il cui core business è (o dovrebbe essere) raccogliere risparmio, gestirlo oculatamente e procurare credito. Non piccole banche cooperative territoriali. Se queste grandi aziende bancarie non sono state in grado di affrontare questi “nuovi” rischi, viene da pensare che non siano poi gestite così bene. E questo preoccupa perché ad esse noi affidiamo i nostri risparmi.

Analizziamo questi 6 “nuovi” rischi.

Approvvigionamento energetico. La prima grande crisi finanziaria dei tempi moderni legata a questo fattore è del 1973: ben 51 anni fa. Il rischio in quanto tale non emerge dalla guerra in Ucraina. Come è possibile che le banche non siano state in grado di elaborare dati e metodi statistici negli ultimi 15 anni?

Scarsa resilienza delle catene di valore. Sono lo strumento che identifica e rappresenta tutte le attività del ciclo produttivo che intervengono nei passaggi che trasformano la materia prima in prodotto finito. In ognuno di questi passaggi, il prodotto acquisisce valore, fino ad arrivare al prezzo di vendita. Ora, da quando la globalizzazione ha subito una forte accelerazione, la capacità delle catene di valore, sempre più lunghe e complesse, di adattarsi alle diverse situazioni che le condizionano è non un problema “nuovo”; è “il” tema. Se le banche non le sanno valutare con dati storicizzati di 10-15 anni, su quali basi accordano un credito o servizi finanziari a imprese medio-grandi?

Instabilità geopolitica. Non si è certo manifestata per la prima volta con la guerra in Ucraina o a Gaza. E’ piuttosto una condizione permanente delle relazioni internazionali almeno dal crollo del Muro di Berlino. Non può essere considerato un rischio “nuovo”.

Tassi d’interesse elevati. Non sono certo una novità nella storia moderna del credito bancario. Basta sfogliare il monumentale lavoro di Paul Schmelzing (“Eight centuries of global real interest rates, R-G, and the “suprasecular” decline, 1311–2018”), edito dalla Banca d’Inghilterra, che attraverso l’analisi di centinaia di fonti ricostruisce le dinamiche dei tassi relative al 78% del Pil mondiale. La media dei tassi reali dal 1311 a oggi è stata del 4,64%, ridotta negli ultimi due secoli al 2,3%. Più rari i periodi di tassi reali negativi come nel periodo attuale. Come è possibile affermare di non avere dati statistici degli ultimi 10-15 anni?

Alta inflazione. Le dinamiche dell’inflazione, nonostante guerre e carestie, difficilmente hanno superato il 5% prima degli anni Settanta del Novecento. In 7 secoli l’alta inflazione attuale è un’eccezione. Secondo Schmelzing, la volatilità del carovita è stata più marcata prima del Cinquecento perché legata alla fluttuazione dei prezzi agricoli, ma poi si è stabilizzata fino alla crescita durante le guerre mondiali del Novecento e negli anni Settanta con gli shock petroliferi. Ma tutto si può dire, meno che sia un rischio improvviso.

Ambiente e cambiamento climatico. E’ almeno dal 1972, con il Rapporto del Club di Roma, che sappiamo che questa è una variante importante per tutte le attività umane e dunque anche per l’economia e la finanza. Si poteva tenere conto della COP di Parigi, che nel 2015 era la XXI Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Almeno da quella data disponiamo di dati raccolti con metodologia univoca: una serie storica di 40 anni. La Bce ha detto che interverrà. Perché la mancata considerazione di questi “nuovi” rischi può avere un impatto importante sul PIL e quindi sui risparmi di clienti retail o grandi investitori delle banche. Il sistema finanziario impiega una quantità enorme di soldi per modelli matematici e previsioni per cercare di anticipare il mercato e indovinare il comportamento delle Borse. Il problema è che si interessa del clima solo se e perché impatta i profitti, ma non se la finanza impatta il clima.

*direttore Fondazione Finanza Etica

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