Oggi la Commissione europea pubblicherà un massiccio aggiornamento delle regole del pacchetto “Clima ed Energia”. Se le indiscrezioni circolate nelle ultime settimane saranno confermate, le regole sulla ricerca di shale gas nel territorio europeo saranno molto blande. Sarebbe la vittoria di David Cameron, che negli ultimi mesi ha fatto forti pressioni su Bruxelles – e in particolare su Janez Potocnik, lo slovacco commissario all’Ambiente, e Connie Hedegaard, la danese commissario per il Clima – per evitare che la burocrazia europea bloccasse il suo piano: in breve, prevede di imitare gli Stati Uniti, cioè trivellare il nord del Regno Unito in cerca di gas e petrolio “non convenzionali” capaci di fornire energia a prezzi ridotti. Il metano americano, scrive la Ue nello stesso documento, oggi costa poco più di un terzo di quello europeo. Il primo ministro britannico è diventato il massimo ambasciatore in Europa dell’industria dello shale gas. Un settore che sta facendo la fortuna dell’America e che sta ottenendo i primi risultati interessanti anche in Asia, ma che in Europa è ancora poco più che immobile. I legislatori sono preoccupati per gli effetti ambientali delle tecniche per estrarre il gas e il petrolio non convenzionali: il “fracking”, che consiste nel pompaggio di composti chimici ad alta pressione a 2-3 chilometri di profondità per rompere le rocce bituminose e liberare gli idrocarburi, potrebbe inquinare il terreno e le falde acquifere. Su questo il dibattito scientifico è ancora aperto. Per cautela la Francia ha bloccato ogni operazione. Cameron invece non vuole aspettare. Secondo le stime, nel Nord del Regno Unito riposano massi bituminosi che possono liberare 37 miliardi di metri cubi di idrocarburi non convenzionali. Il governo inglese calcola che da questo settore si possono ottenere investimenti per 3,7 miliardi di sterline all’anno e 74mila nuovi posti di lavoro. Si spiega così, ma anche con il progressivo declino dei pozzi dei mari del Nord, la scelta politica britannica di favorire in tutti i modi le ricerche di nuovi idrocarburi. Lo scorso anno il governo inglese ha tagliato le tasse sulle imprese del settore portandole a un livello inferiore a quello degli Stati Uniti. «Daremo il massimo per lo shale gas » ha annunciato il 12 gennaio il premier britannico presentando la nuova strategia per rendere più accettabili le esplorazioni per la popolazione. Il governo lascerà agli enti locali il 100% (cioè il doppio dell’attuale 50%) delle tasse sulle attività di ogni impianto di shale gas sul loro territorio. Si parla di circa 1,7 milioni di sterline per impianto. Denaro che si aggiunge alle 100mila sterline per ogni esplorazione e all’1% dei ricavi degli impianti introdotti dal governo lo scorso anno. Londra sta anche discutendo con le aziende la possibilità di pagare direttamente i cittadini che abitano nelle zone attorno alle aree di esplorazione. Non è detto che questi ritorni economici — gli ambientalisti di Greenpeace le hanno definite “mazzette” — bastino a superare lo scetticismo dei cittadini britannici. Il governo inglese intanto incassa i primi risultati del suo piano. Sono già quaranta le esplorazioni in corso. In questi anni hanno investito sullo shale gas britannico gruppi inglesi come Centrica (ex British Gas) e diverse società americane. Adesso stanno arrivando i francesi. Lo scorso ottobre Gdf Suez ha scommesso 24 milioni di sterline sui progetti delle società americane nel Cheshire e nelle East Midlands. La settimana scorsa Total ha puntato 30 milioni di euro, sempre con gli americani, nelle East Midlands. Per Londra, che rimane sempre con un piede in Europa e l’altro no, “rubare” gli investimenti a Parigi è una conquista non da poco. Total, in particolare, è una di quelle (poche) società che avevano licenze per cercare lo shale gas in terra francese e che se le sono viste ritirare nell’ottobre del 2011, quando il governo Sarkozy, preoccupato per gli effetti sull’ambiente, ha imposto una moratoria sulle ricerche (confermata dalla Corte costituzionale l’autunno scorso). Vinta la battaglia sulle regole europee, ora Londra incassa come 'bottino' gli investimenti dei grandi gruppi degli altri Stati della zona euro. Dopo i francesi potrebbero arrivare gli italiani. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, ha ripetuto spesso che spera di riuscire a ottenere risultati importanti nella ricerca di shale gas in Europa. Ha puntato sulla Polonia ma è andata male: come le altre majors che hanno creduto alla grande promessa del metano polacco, l’Eni ha cercato molto ma ha trovato poco, tanto che sta lasciando scadere le licenze. Così il Cane a sei zampe tiene d’occhio il Regno Unito: è pronto a gettarsi nel Nord britannico, se sentirà l’odore allettante del nuovo gas.