Il mondo sta invecchiando. Nel 2050 una persona su sei avrà più di 65 anni e vi saranno 70 pensionati ogni 100 lavoratori. Numeri da capogiro, per un’economia e una politica che su questo problematico terreno si stanno muovendo senza la necessaria lungimiranza, considerando il costante allungamento della vita media, la diminuzione del tasso di natalità e l’affacciarsi annunciato della generazione del baby-boom alla soglia dei 65 anni. Ma il cambiamento è in atto, e secondo gli analisti servono misure urgenti. L’ultimo monito arriva da una ricerca condotta da Nomura, banca d’investimento globale, intitolata «The business af ageing»: come dire, a chi ancora non l’avesse capito, che sull’età sempre più avanzata della popolazione bisogna iniziare a pensare in termini pragmatici. A partire dalla revisione delle politiche pensionistiche: nei prossimi anni diventerà improrogabile invertire la tendenza al prepensionamento che per decenni ha caratterizzato il mercato del lavoro di molte economie occidentali. Lo studio di Nomura parla chiaro: in base ai dati relativi ai Paesi Ocse, in mancan- za di modifiche drastiche agli attuali schemi pensionistici nel 2050 il rapporto tra forza lavoro a riposo e forza lavoro attiva potrebbe superare il 70% rispetto al 38% registrato nel 2000, mentre in Italia questo dato potrebbe essere addirittura superiore al 110%. Senza contare che, in un quadro simile, il rapporto tra pensionati e lavoratori finirà col gravare significativamente sull’entità delle pensioni stesse, nonché sui sistemi sanitari pubblici, già provati dai maggiori costi che una società più anziana necessariamente imporrà. Che fare? Innanzitutto, incoraggiare la popolazione a rimanere attiva oltre gli attuali limiti d’età: una proiezione della ricerca dimostra che, in assenza di incentivi al ritiro anticipato dalla vita lavorativa e con una più alta età pensionabile, il numero di persone in attività – rapportate al totale della popolazione – crescerebbe sostanzialmente, in pratica annullando i problemi dovuti all’invecchiamento. E poi promuovendo politiche tese a incentivare la partecipazione al lavoro delle donne e supportando la natalità e l’immigrazione. Tutte misure che nel nostro Paese sono già invocate da tempo: «I nostri dati collimano perfettamente con quelli della ricerca di Nomura – spiega il segretario generale della Fnp- Cisl, Antonio Uda –. L’invecchiamento della nostra società richiede un intervento immediato del governo proprio sulla riforma delle pensioni: rimanere fermi al limite attuale dei 65 anni è del tutto inadeguato. In questo senso si è mosso già bene il governo con l’abolizione del divieto di cumulo, in vigore dal primo gennaio: ciò significa che un pensionato di anzianità privo dei requisiti necessari, e che arrotonda il proprio reddito con un’attività lavorativa, si può ora liberare di ogni trattenuta». E non basta ancora: «Deve anche cadere la pratica per cui, per ragioni di risparmio sui bilanci, le aziende continuano ad adottare la logica del prepensionamento, pensando di poter rimpiazzare determinate figure professionali con giovani, per giunta precari. È la produttività stessa delle aziende che viene messa in crisi da questa tendenza». Ma se ad invecchiare è il mondo del lavoro, specularmente lo è anche la società dei consumi: gli anziani stanno diventando il target con cui le aziende devono sempre più relazionarsi, in fase sia produttiva sia pubblicitaria, e questo tenendone presente le caratteristiche peculiari, spesso diversificate. Se è vero infatti, come sottolinea la ricerca di Nomura, che gli ultrasessantacinquenni sono meno propensi al risparmio degli individui di mezza età (secondo lo studio i giovani fino ai 35 anni e gli anziani sopra i 65 dedicano ai consumi la parte maggiore dei loro introiti) e che nel 2011 ad affacciarsi alla soglia della pensione sarà la generazione dei figli del boom economico (con un tenore di vita tendenzialmente alto), l’altro lato della medaglia è quello di pensioni sempre più inadeguate rispetto al costo della vita. «In Italia 8 milioni di pensionati vivono con meno di 720 euro al mese, 11 milioni con meno di 1200 – spiega ancora Uda –. Sono dati drammatici, che impongono anche un ripensamento della società dei consumi. Penso in particolare al settore sanitario e farmaceutico, dove quantità e qualità del-l’offerta risultano sempre più ridotte, a discapito dei principali fruitori di questi servizi, che sono proprio gli anziani. E penso più in generale all’offerta di beni essenziali, primari: è in questi campi che l’anziano esercita maggiormente la sua domanda, non certo in quello dei beni sofisticati o di nicchia». Le aziende, tuttavia, si dimostrano ancora poco preparate – o poco interessate? – ad affrontare il fenomeno. Col rischio di non cogliere un’occasione preziosa nell’attuale crisi economica: quella di intercettare e soddisfare una parte cospicua della domanda interna del Paese, al momento dimenticata e – volente o nolente – sopita.