Una donna prova un iPhone X in un negozio di Mosca - Ansa
Nella Silicon Valley è iniziata una battaglia tra giganti che ha al centro i nostri dati.
Lunedì, senza troppa enfasi, Apple ha lanciato l’aggiornamento alla versione 14.5 dei sistemi operativi degli iPhone, degli iPad e delle Apple tv. Tra le novità c’è la App Tracking Transparency, la nuova politica sul tracciamento degli utenti. Le nuove regole impongono a ogni applicazione di ottenere l’esplicito consenso dell’utente per tenere d’occhio che cosa fa quando naviga online o usa altre app. In concreto, chi aggiornerà il sistema operativo quando installerà o aggiornerà un’app vedrà comparire sullo schermo messaggi di questo tipo: «Vuoi consentire a questa app di monitorare la tua attività su app e siti Web di altre società?». Seguono un paio di righe, scritte dai produttori dell’app, per spiegare perché vogliono sapere quello che fa l’utente quando naviga sul Web o usa il suo iPhone. Spiegheranno, quasi sempre, che ne hanno bisogno per fargli arrivare la pubblicità più adatta ai suoi interessi e per mantenere gratuita l’applicazione. A quel punto starà all’utente decidere se concedere o meno il permesso.
Per quanto gli sviluppatori delle app possano arruolare i migliori copywriter per essere convincenti in quelle poche righe è evidente che tra le due alternative non c’è partita. Chi è che preferisce essere “monitorato”, quando il prezzo per evitarlo è solo quello di ricevere annunci pubblicitari slegati dai propri interessi? Da diversi mesi le aziende che si occupano di pubblicità digitale stanno facendo i loro calcoli (Apple aveva annunciato l’arrivo di questa novità già l’estate scorsa). Secondo l’agenzia di performance marketing Tinuiti la percentuale di utenti con dispositivi Apple che concede alle app il permesso di “tracciarli” scenderà dal 70% a circa il 10-15%.
Chi è che preferisce essere “monitorato”,
Una catastrofe per chi vive di pubblicità online. Soprattutto per Facebook, che come sito fa social networking ma come azienda si occupa di offrire agli investitori pubblicitari la possibilità di fare inserzioni mirate su ognuno dei suoi 2,8 miliardi di utenti, di cui conosce amicizie, interessi, passioni e un sacco di altre cose che fanno anche quando non sono su Facebook (qui ognuno può consultare il proprio elenco delle "attività fuori da Facebook" che condividono informazioni con il social network). Come strategia comunicativa, Facebook ha portato avanti le ragioni di tante piccole attività. Bar, negozi, artigiani che usano il social network per conquistare clienti grazie alla pubblicità mirata.
Facebook nega che ci sia uno scambio tra pubblicità mirata e privacy. Accusa Apple di non dare agli utenti il contesto corretto rispetto ai benefici di ricevere annunci pubblicitari personalizzati. Non aggiunge che indubbiamente i benefici maggiori sono per la stessa Facebook, che nel 2020 ha fatturato 86 miliardi di dollari (quasi tutti dalla vendita di pubblicità) facendo 30 miliardi di utili.
Le ombre di due utenti davanti a un'insegna di Facebook - Reuters
La nuova politica di Apple colpisce, assieme al social network di Mark Zuckerberg, decine di migliaia di sviluppatori di app gratuite che guadagnano grazie all’attività di tracking degli utenti. La lista dei possibili impieghi del monitoraggio pubblicata dalla stessa Apple è lunga. Un’app può vendere a un data broker, che compra dati e li rivende a chi ne ha bisogno, le informazioni sugli spostamenti di un utente. Oppure può installare un Sdk (sigla che sta per “software development kit”) che combina i dati raccolti dall’app con quelli raccolti da altre app per costruire una precisa identità dell’utente, così da proporgli messaggi pubblicitari su misura. Per chi fa pubblicità online è anche possibile verificare se l’utente completa l’acquisto, così che l’inserzionista può valutare l’efficacia del lavoro dell’agenzia.
Con la nuova politica sul tracking, Apple adotta un principio base dell’economia comportamentale: a volte basta un leggero “stimolo” per indurre le persone a cambiare le propriescelte. È il nudge, la “spinta gentile” che ha portato Richard Thaler a vincere il Nobel.
Al centro di tutto c’è l’IDFA, sigla che sta per Advertising Identifier: è il codice univoco assegnato casualmente ad ogni apparecchio Apple, dal quale – senza riferimento ai dati personali – i pubblicitari possono vedere come l’utente interagisce con le pubblicità. Fino ad oggi questo codice era condiviso automaticamente con le app installate, a meno che l’utente non intervenisse sulle impostazioni per disattivarlo. Pochi lo sapevano e pochissimi si prendevano la briga di farlo. Con la nuova politica sul tracking, Apple adotta un principio base dell’economia comportamentale: a volte basta un leggero “stimolo” per indurre le persone a cambiare le loro scelte. L’avviso sul tracciamento funziona come una “sveglia”. È il nudge, la “spinta gentile” che ha portato Richard Thaler a vincere il Nobel.
Apple può permetterselo. L’azienda guidata da Tim Cook guadagna vendendo dispositivi e servizi agli utenti. La pubblicità mirata ha un impatto minimo sul suo enorme giro d’affari (275 miliardi di dollari il fatturato 2020). Anzi: l’attenzione alla privacy dà valore aggiunto ai suoi prodotti. Già in passato Cook non ha nascosto di non apprezzare il modello di business di aziende come Facebook.
Un uomo cammina davanti agli uffici svizzeri di Google a Zurigo - Reuters
Google guarda questa battaglia da spettatore interessato. Come Facebook il motore di ricerca vive principalmente di pubblicità, grazie all’enorme quantità di dati che raccoglie tra gli utenti e monetizza con le inserzioni. Rispetto al social network, Google ha però diversi vantaggi. Tra questi l’avere sviluppato Android, il sistema operativo più utilizzato al mondo sugli smartphone: se Apple può dettare legge sul mondo iOs, Google può farlo su Android (dove ogni dispositivo ha un suo identificativo come l'Idfa, chiamato AAID). Allo stesso tempo il motore di ricerca ha una posizione di forza anche nei browser, con il suo Chrome.
Presto si muoverà per sfruttarla al meglio: da qualche mese ha annunciato che è allo studio un sistema per andare oltre la vecchia logica dei cookies di terze parti che tracciano l’attività degli utenti sul web. Il progetto di Google è la creazione di quella che l’azienda chiama la “privacy sandbox”, cioè un ambiente protetto in cui la privacy di chi naviga sul web dovrebbe essere più più tutelata. Per permettere di fare comunque pubblicità mirata, Google vuole usare il metodo delle FLoC (sigla che sta per Federated Learning of Cohort), cioè creare dei gruppi di utenti con interessi simili da proporre come “pacchetto” di possibili destinatari di annunci pubblicitari. Una soluzione che in realtà per ora, come raccontato dal sito di tecnologia The Verge, non piace agli altri grandi sviluppatori di browser, a partire da Microsoft e Mozilla. E che terrorizza le aziende specializzate in pubblicità che senza cookies non hanno quasi più nulla da vendere agli inserzionisti. La chiamano la "cookiepocalypse", una sorta di "apocalisse" dei cookies.
Chi uscirà quasi certamente vincitore da questa battaglia attorno ai dati sono gli utenti. Gli scontri in corso partono tutti da un presupposto: le persone si stanno rendendo conto di quanto possa essere fastidioso essere “spiati” nella propria vita quotidiana per scopi commerciali e aumenta il numero di quelli che non sono più disposti ad accettare la situazione attuale. I giganti del web devono trovare una soluzione per garantire una maggiore privacy senza rischiare di distruggere il proprio modello di business. Per molti non sarà facile.