Agli italiani l’inventiva non è mai mancata. La fiducia in se stessi e in chi li governa invece sì. Un’altra cosa che non è mai mancata agli italiani è l’eccessivo carico fiscale. E una certa capacità organizzativa invece sì. Potrebbe essere anche il poco opinabile quadro sullo stato dell’innovazione tecnologica nel nostro Paese, tra investimenti insufficienti e fughe di cervelli, anche se poi qualche volta qualcuno ritorna. Un quadro in chiaroscuro, tra cronici e annosi ritardi e improvvise impennate di orgoglio e inaspettata efficienza.
Con eccellenze sparse un po’ qua e là sul territorio, a macchia di leopardo, ma sullo sfondo una strutturale incapacità di fare sistema, a partire dalla sconnessione del mondo del lavoro e imprenditoriale da quello della scuola, università in testa. Su tutto ciò, la persistenza di uno storico gap con l’Europa del Nord. Una distanza che però si sta via via riducendo, nonostante il Belpaese resti molto al di sotto della media europea e ancora lontano dagli obiettivi di Europa 2020.
Stando all’ultimo Rapporto Bes 2015, la spesa totale in ricerca e sviluppo ammontava nel 2013 a circa 21 miliardi di euro (+1,1% rispetto all’anno precedente), ma tuttavia l’investimento in R&S è ancora lontano dal target nazionale dell’1,5% di Europa 2020, con un gap di 0,7 punti percentuali rispetto alla media Ue, pari al 2%. In aumento anche la spesa privata in R&S (12,1 miliardi, +3,4%) che sale dal 57,1 al 57,7% sul totale, ma solo un quarto delle imprese investe nei nuovi prodotti, soprattutto tra le industrie di grandi dimensioni. Un fronte ancora piuttosto problematico in Italia è soprattutto l’insufficiente interazione tra università e mondo imprenditoriale.
Anche se proprio ieri è cominciata a Napoli l’esperienza dei primi cento cervelloni della Apple Academy nel nuovo polo universitario tecnologico, dove i duecento ragazzi che hanno superato i test verranno cresciuti a pane e algoritmi per diventare esperti di informatica grazie alla Ios Developer Academy, la prima scuola europea per sviluppatori di app sorta dalla partnership tra il colosso di Cupertino e l’Università Federico II. Un segnale positivo e incoraggiante, soprattutto per una regione che sconta ritardi strut- turali in molti altri ambiti sociali.
La Campania nell’high-tech si posiziona così a livello delle regioni del Centro-Nord al pari di Veneto e Toscana e ben sopra il Friuli-Venezia Giulia. Certo, a livello nazionale a fare la parte del leone c’è la solita Lombardia, l’unica regione italiana fra le top 20 europee. Posizione che non consente però all’Italia di collocarsi al di sopra del misero ventesimo posto nella classifica degli occupati nei settori ad alta tecnologia, dove siamo seguiti soltanto da Grecia, Portogallo e dai Paesi dell’Europa orientale.
Un’altra nota dolente è quella dei brevetti, un chiaro indicatore di capacità innovativa. I dati forniti dall’European Patent Office, l’organismo europeo che registra e tutela i brevetti a livello nazionale, dicono che lo scorso anno gli italiani hanno presentato 3.979 richieste di brevetto, con un aumento di 330 rispetto al 2014 (+9%). Un balzo che ci consente di superare la Svezia e di agganciare l’ultimo posto della top ten mondiale, che vede in testa con 42.692 brevetti applicati gli Usa, seguiti da Germania, Giappone, Francia, Paesi Bassi, Svizzera, Corea del Sud, Cina e Regno Unito. In pratica l’Italia è al sesto posto europeo, ma se si considera il rapporto brevetti/popolazione risultiamo molto indietro in classifica.
Tra le nazioni della nostra dimensione, la Germania vanta 3,02 brevetti registrati ogni 10mila abitanti, la Francia 1,73, il Regno Unito 0,82 e l’Italia 0,65. In pratica superiamo soltanto la Spagna con 0,33. Ma perché fatichiamo a brevettare, nonostante un’indiscussa genialità e considerando che l’Epo tiene conto della nazionalità dell’inventore, a prescindere dal Paese in cui il brevetto è stato registrato?
Pur esistendo il cosiddetto «privilegio accademico» (che attribuisce al ricercatore universitario la facoltà esclusiva di realizzare l’invenzione e di trarne i relativi profitti), il ricercatore deve vedersela con una burocrazia ostile e con costi proibitivi. Oltretutto le università hanno spesso regolamenti differenti in materia e questo scoraggia le imprese a mettere in campo progetti di collaborazione con gli atenei. Nonostante questo, ci sono tre macro settori nei quali l’attività innovativa e commerciale italiana è all’avanguardia: chimica, elettronica e meccanica. In quest’ultimo poi l’Italia è al top (e in controtendenza) anche per quanto riguarda i brevetti.