In 180 giorni Matteo Renzi ha litigato con tutta l’Italia che conta: banchieri e superburocrati, magistrati, giornalisti di grido e professoroni, Confindustria e sindacati. E si è tuffato quasi a peso morto tra le braccia del Paese (che alle Europee ha ricambiato il favore): gli scambi di tweet con i cittadini 'normali', i selfie con studenti ed insegnati, le assemblee a porte chiuse e senza filtri con gli imprenditori, i patti di ferro sull’edilizia scolastica con gli amati sindaci (la 'faccia buona' della politica da contrapporre ai politicanti di Roma). Sei mesi di corsa con tour di un giorno nei capoluoghi d’Italia, Cdm brevi, riunioni extralarge con la squadra ristretta (Delrio, Padoan, Boschi, Lotti...) e conferenze stampa ancora più extra con slide, annunci, hashtag e complicità con i giornalisti. L’impatto emotivo sul Paese è stato immediato e ha trovato riscontro nel primo test elettorale di maggio. Ma dopo, imprevedibilmente, la strada si è messa in salita. Non tanto per il cammino impervio della riforma del Senato quanto per i primi dati economici dell’esecutivo in contrasto con promesse a attese. Ancora quel segno meno davanti al Pil, e la sensazione che «cambiare verso» all’Italia richieda più coraggio e tempi ancora più serrati. Il premier sente il fiato sul collo dei «gufi», che certo sono tanti. Ma più che smentire loro, nei prossimi sei mesi dovrà liberare il Paese dalla sensazione sgradevole e opprimente di non potercela più fare.