sabato 5 aprile 2025
Rana Foroohar, vicedirettrice del Financial Times, ha pubblicato in Italia "La globalizzazione è finita", sulla crisi del modello basato sul mercato. L'Ue? «Deve creare un sistema di scambi più equo»
Un uomo pesca nel fiume al confine tra Stati Uniti e Canada

Un uomo pesca nel fiume al confine tra Stati Uniti e Canada - ANSA

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Se applicassimo le categorie con cui Donald Trump etichetta i suoi “nemici”, Rana Foroohar avrebbe il tipico profilo di una “globalista”. Vicedirettrice del Financial Times e commentatrice della Cnn, una carriera tra Newsweek e il Time, vincitrice di premi per le sue analisi sui rapporti economici transatlantici, questa giornalista newyorkese figlia di immigrati turchi ha tutto per essere il perfetto alfiere della bontà dell’apertura dei mercati e degli effetti positivi della globalizzazione. Invece Foroohar sostiene che “La globalizzazione è finita”, come l’editore Fazi ha titolato il suo libro, pubblicato lo scorso febbraio in Italia. L’edizione americana era titolata Homecoming, che significa “Ritorno a casa”. È uscito nel 2022, ma sembra scritto ieri.

Erano davvero così evidenti i segnali che l’ordine commerciale globale stesse andando in pezzi?

Per me sì, moltissimo. L’economia finanziaria, cioè la dimensione totale di tutti i mercati finanziari, negli ultimi anni è stata tra le due e le quattro volte più grande dell’economia reale: è un segno che il capitale globale si stava allontanando dal lavoro globale, e che il sistema di mercato globale stava diventando, per così dire, “la coda che scodinzola”. Ciò accadde anche negli anni ’20, nel periodo precedente al crollo del mercato del 1929 e alla Grande Depressione, che alla fine – dopo molto dolore – riportò l’economia verso Main Street e lontano da Wall Street, con l’ascesa di Keynes, Roosevelt e un maggiore intervento del governo nei mercati per proteggere i lavoratori. Penso che ora ci troviamo in una sorta di spostamento del pendolo. La strategia di Trump è caotica e mi sarebbe piaciuto vedere un approccio condiviso al mercantilismo cinese tra Stati Uniti, Europa e altri alleati. Ma ciò che sta accadendo è il segno di un più ampio spostamento del pendolo dalla globalizzazione alla regionalizzazione e localizzazione. Era chiaro quello che stava succedendo: quando il pendolo economico oscilla troppo in una direzione, alla fine oscilla nella direzione opposta.

Entriamo in una fase di profondo sconvolgimento delle catene del valore globali. Quanto costerà questa crisi in termini di perdita di ricchezza e di posti di lavoro, e che tipo di nuovo equilibrio possiamo sperare di trovare?

Mi preoccupa il costo che la spirale dell’inflazione potrebbe avere sulle classi medie. Non credo che Trump si preoccupi tanto dei lavoratori quanto della sicurezza: la sua strategia tariffaria è progettata per proteggere più manifattura e produzione negli Stati Uniti, piuttosto che rafforzare i salari. Molto di ciò che accadrà dopo dipenderà dal resto del mondo, dal tipo di accordi tariffari che verranno stipulati e da come e dove si formeranno nuove alleanze commerciali. Lo scenario migliore per l’Europa sarebbe se la Cina dicesse: “Ok, ora vogliamo lavorare con voi e siamo disposti a modificare le nostre pratiche mercantilistiche per farlo, e a elaborare un paradigma commerciale più equo con una reale protezione per i lavoratori e l’ambiente”. Ma il caso peggiore sarebbe che la Cina scaricasse in Europa tutti i beni a basso costo che non possono più andare negli Stati Uniti, il che sarebbe un disastro economico e politico.

La strategia di Trump per riportare la produzione negli Stati Uniti rendendo le importazioni più costose ha qualche possibilità di successo?

È una domanda difficile. Il fatto che gli Stati Uniti siano riusciti a ricostruire un’industria dei semiconduttori in 18 mesi sotto Biden è la prova che è possibile riportare la produzione nei Paesi ricchi con sufficiente volontà politica. Ma per farlo sono necessarie sia le tariffe che una strategia industriale nazionale: con Trump vedo il primo elemento, non il secondo.

Nel libro parla di “trovare un modo per ricollegare la ricchezza ai luoghi” per “ritagliare uno spazio felice tra autocrazia e oligopolio”. La sorprende che sia stata un’amministrazione con tratti autocratici come quella di Trump a tentare di ripristinare questo legame tra territori e prosperità?

Direi che durante il primo mandato di Trump, è stato Robert Lighthizer dell’Ustr a farlo davvero. Trump era semplicemente pronto per il percorso politico. E poi, sotto Joe Biden, si è assistito a un vero tentativo di riorganizzare il sistema commerciale globale (senza successo, in parte perché Bruxelles non ha voluto seguirlo) e di creare una vera politica industriale a livello nazionale. Ora, Trump sta distruggendo il sistema di Bretton Woods, ma non sono sicura che abbia già qualcosa con cui sostituirlo.

Rana Foroohar

Rana Foroohar - Web

Un capitolo del libro è dedicato all’idea che “costruire le cose conta”. Perché è fondamentale avere una solida base manifatturiera, anche in un’economia in cui i servizi e il commercio stanno diventando sempre più dominanti?

L’industria manifatturiera, anche quella che abbiamo oggi e che richiede meno lavoro rispetto al passato, crea semplicemente più ricchezza nelle comunità rispetto ai lavori di basso livello nei servizi. C’è un grande effetto a catena sul piano economico. Inoltre credo che i Paesi debbano essere in grado di produrre beni critici all’interno del proprio territorio o con alleati, e che abbiamo bisogno di più hub globali per la produzione e il consumo in modo da non ritrovarsi con un potere troppo concentrato – sia nei Paesi che nelle aziende – che può creare un punto di strozzatura in tempi di crisi.

L’Europa sembra determinata a continuare con il suo approccio orientato all’export, alla ricerca di nuovi mercati per i suoi beni. È una strada percorribile o semplicemente provare vecchie soluzioni per nuovi problemi?

L’Europa ha in questo momento un’occasione d’oro per proiettare forza e leadership se è disposta a unirsi in una vera unione economica e politica. Se lo farà, diventerà una vera forza del bene nel mondo e potrà usare quel potere per spingere la Cina e gli Stati Uniti verso un riallineamento basato sui valori del sistema di Bretton Woods. Se si rompesse, finiremo in un mondo molto hobbesiano, da homo homini lupus.

L’Italia si è affermata come un forte esportatore nel settore del lusso – soprattutto nella moda e nei prodotti alimentari di alta qualità – così come nei macchinari e nei prodotti farmaceutici. Riuscirà a mantenere questa forza o dovrà ripensare il suo modello economico?

Ripeto: se la Cina decidesse di fare dell’Europa una discarica di beni a basso costo, allora l’Italia sarebbe nei guai. Ma, in un certo senso, questa è la partita da perdere per la Cina in questo momento. Se l’Europa si unisse e la Cina fosse disposta a collaborare con l’Ue per rilanciare il commercio in modo veramente equo, allora sia l’Europa che l’Italia potrebbero prosperare. In ogni caso, nel lungo periodo, la profondità delle competenze, della storia e dell’eredità del settore manifatturiero italiano costituisce un enorme punto di forza per il Paese e non dovrebbe essere persa.

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