La bio-raffineria di Eni a Porto Marghera - Eni
Pochissime aziende sono state davvero avvantaggiate dalle regole del lockdown. Pochi settori industriali però sono stati penalizzati più di quello della distribuzione di carburante. Indicate dal governo tra le attività «essenziali» da garantire anche in tempi di pandemia, le stazioni di servizio sono dovute restare aperte nonostante quasi nessuno andasse a fare rifornimento. Quindi i costi di gestione sono rimasti mentre gli incassi sono precipitati.
Nel confronto con un anno fa, a marzo i consumi di benzina sono crollati del 52%, quelli di gasolio del 41% secondo i calcoli dell’Unione petrolifera. Il bilancio di aprile sarà anche peggiore, con una caduta del 60% per il gasolio e del 75% per la benzina. I distributori vanno avanti con incassi medi nell’ordine dei 10 euro al giorno, ha fatto notare qualche settimana fa la Faib, che associa i gestori che aderiscono a Confesercenti. Dopo che a fine marzo le associazioni dei benzinai avevano spiegato che senza un aiuto dallo Stato non avrebbero potuto garantire il servizio, il governo li ha incontrati in due tavoli tecnici e ha promesso una serie di misure per sostenere la loro attività. Poi il nulla.
Faib, Fegica e Figisc Confcommercio sono tornate a chiedere al governo di concretizzare gli impegni presi. Hanno allegato alla lettera inviata all’esecutivo il 22 aprile la lista di 200 micro-imprese autostradali che hanno cessato il rifornimento per mancanza di liquidità e hanno posto il problema in maniera molto chiara: chi può costringere un gestore a tenere aperto l’impianto quando non ha più i soldi per farlo? La settimana scorsa le quotazioni del petrolio americano Wti sono crollate in negativo per la prima volta nella storia: i trader che comprano i derivati basati sul petrolio per speculare si sono alla fine scontrati con la realtà. Ogni mese arriva il momento in cui quei “derivati” scadono e chi ha in mano il contratto deve provvedere a ritirare i barili di petrolio dall’enorme centro di stoccaggio di Cushing, in Oklahoma. Di solito non ci sono problemi: il trader vende il contratto a un compratore reale e la questione è chiusa. Stavolta però i compratori reali non c’erano, il centro di stoccaggio era intasato e chi speculava è stato costretto a pagare qualcuno perché accettasse di sollevarlo dall’onere di trovare un posto dove mettere il petrolio acquistato.
Sui contratti di giugno si rischia il bis. Ora le quotazioni del Wti sono sui 15 dollari. È comunque troppo poco per i piccoli produttori di shale oil americano, che hanno bisogno di prezzi superiori ad almeno i 45 dollari al barile. «Parliamo di 6mila imprese indipendenti già molto indebitate. Questa crisi le investe in pieno, mentre le major come Exxon o Chevron hanno le spalle larghe. Così come Eni in Italia» spiega l’economista Alberto Clò, direttore di Rivista Energia. La tensione sulle quotazioni, aggiunge Clò, è destinata a durare: «C’è un vuoto di domanda ampiamente superiore alla capacità dei produttori di compensarla. L’accordo “storico” all’Opec+ per il taglio di 9,7 milioni di barili non è storico per niente, quando il calo della domanda è tre volte tanto. Gli Stati produttori riducono le estrazioni perché non riescono a vendere, non perché lo abbiano deciso loro. Da questa situazione, però, non ci guadagna nessuno».
Non è un problema solo degli sceicchi o dei petrolieri del Texas. Anche in Italia tutto il downstream – cioè l’attività di raffinazione, trasporto, stoccaggio e distribuzione di prodotti petroliferi – attraversa una situazione drammatica. Le 13 raffinerie rimaste nel nostro Paese dopo la profonda crisi degli anni passati avevano comprato petrolio a prezzi superiori di circa il 60% rispetto alle quotazioni attuali e il crollo dei prezzi ha generato un ammanco di cassa di oltre 4 miliardi di euro nel giro di pochi giorni. Gli impianti lavorano al “minimo tecnico”. Per un settore che occupa direttamente 21mila persone che diventano 130mila con l’indotto servono «interventi straordinari di sostegno» ha chiesto Claudio Spinaci, presidente dell’Unione Petrolifera.
Lo scorso anno, quando ha annunciato il piano di divestment dalle fonti fossili, l’enorme fondo sovrano norvegese ha chiarito che continuerà a investire su diverse aziende petrolifere perché, come ha spiegato il ministro delle Finanze, «si prevede che quasi tutta la crescita dell’energia rinnovabile nella prossima decade sarà guidata da aziende che non hanno l’energia rinnovabile come loro principale business ». In Italia, l’Unione Petrolifera ricorda che in uno scenario di taglio delle emissioni di CO2 «la raffinazione dovrà investire per rispondere alla de– carbonizzazione, i depositi per accogliere i nuovi prodotti, la distribuzione per soddisfare la nuova domanda di mobilità». Per questo, in vista della Fase 2 e più in generale di una ripresa dell’economia europea in chiave ecologica, i petrolieri italiani chiedono di «porre ancora maggiore attenzione nella valutazione degli interventi più efficaci, in termini di costi per gr di CO2 evitata, cogliendo appieno tutte le potenzialità delle filiere esistenti».