Arrivato nella favolosa isola di Margarita per partecipare, a inizio novembre, alla conferenza mondiale sul clima che il governo venezuelano ha organizzato in un ex hotel Hilton fatto espropiare qualche anno fa da Hugo Chavez, il ministro saudita del petrolio Ali al-Naimi, probabilmente l’uomo più potente del mondo dell’oro nero, si è visto chiedere dall’addetto agli accrediti di mettersi ordinatamente in fila per ritirare il suo badge. E mentre la delegazione saudita vagava per l’albergo in attesa di capire dove al-Naimi, al suo primo viaggio sudamericano da otto anni, avrebbe potuto incontrare il suo omologo venezuelano Rafael Ramirez, oscuri funzionari del governo della Repubblica Bolivariana la intrattenevano con appassionate presentazioni sul tema "mali del capitalismo e pregi del socialismo". Non proprio il trattamento migliore per convincere il ministro arabo che si occupa del petrolio di re Abdallah a fare qualche sacrificio per fermare la discesa del prezzo del greggio che sta portando il Venezuela alla bancarotta.
È tra simili e ormai insostenibili incompatibilità culturali che, nell’assenza di un vago spirito di solidarietà, si dirige verso il capolinea la storia dell’Organizzazione mondiale dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Il cartello creato nel 1960 dai governi di Iraq, Iran, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela per coordinare i livelli di produzione del greggio e stabilire assieme il prezzo a cui vendere il petrolio alle grandi compagnie occidentali rischia di non avere spazio in un mondo petrolifero che è molto cambiato. Il 166esimo incontro tra i ministri dell’Opec che si terrà questo giovedì, come sempre a Vienna, non sarà un appuntamento di routine, ma piuttosto un incontro "sul senso della vita", come ha efficacemente spiegato sul Financial Times l’analista Jamie Webster, di Ihs Energy.
Da giugno, cioè dall’ultimo incontro dei ministri dell’Opec, la quotazione del Brent – prezzo di riferimento per il mercato internazionale del greggio – è crollata di un terzo, da 115 a 78 dollari al barile. Se il cartello vuole "mantenere la stabilità dei prezzi", che sarebbe il suo primo obiettivo, non ci sta riuscendo per niente. Per diversi paesi dell’Opec è un dramma. I governi del cartello amministrano nazioni che basano le loro economie sulle vendite di petrolio, ognuno ha un livello di prezzo del greggio sotto il quale non può andare. Le stime variano a seconda dei centri di ricerca, ma si può dire con sicurezza che il Venezuela o l’Iran non riescono a tenere i loro conti a posto se il petrolio non è almeno a 120 dollari al barile, che altri paesi dell’Opec possono accontentarsi di quotazioni attorno ai 100 dollari e che a quello più "tranquillo", il Kuwait, un prezzo di 50 dollari può anche andare bene.
Con una produzione fissata a 30 milioni di barili al giorno, il cartello controlla ancora un terzo del mercato mondiale del greggio ed è ancora in grado di fare salire le quotazioni tagliando la produzione. Certo, da un lato la crisi economica ha provocato un calo della domanda mondiale (che l’Agenzia l’internazionale dell’energia prevede a 92,6 milioni di barili per il primo trimestre del prossimo anno) e dall’altro l’evoluzione dello shale gas degli Stati Uniti sta aumentando la produzione nordamericana al ritmo di un milione di barili all’anno. L’Opec non ha più il potere di una volta, quando rappresentava quasi la metà del mercato del petrolio mondiale, però ha ancora un buon grado di controllo delle quotazioni. Ma deve volerlo. E deve volerlo, più in particolare, l’Arabia Saudita, che con 9,5 milioni di barili di greggio prodotti ogni giorno spadroneggia all’interno di un cartello molto sbilanciato, in cui solo altri cinque paesi sono sopra i 2 milioni di barili quotidiani. In queste giornate viennesi in cui i reporter inseguono i ministri tra gli hotel più lussuosi della capitale austriaca tutti vanno a caccia di al-Naimi. Lui, dopo avere pensato bene di farsi quasi un mese di vacanza mentre le quotazioni crollavano, se n’è uscito a metà ottobre per dire che la caduta dei prezzi non è tanto problematica. Parole che hanno fatto infuriare i compagni dell’Opec e anche un membro della famiglia reale saudita, il principe al-Waleed bin Talal, che è arrivato a scrivergli una lettera pubblica per ricordargli che "il budget del regno dipende al 90% dagli incassi del petrolio".
In effetti per l’Arabia saudita serve un petrolio ad almeno 90 dollari al barile, anche se il debito pubblico è così basso (al 2,7% del Pil) che il paese ha spazio per chiudere bilanci pubblici in perdita per qualche anno. Più anni di quelli che possono essere tollerati dalle compagnie petrolifere attive nello shale gas americano. È questa, probabilmente, la scommessa del saudita: spingere le quotazioni a livelli così bassi che estrarre petrolio dalle pietre bituminose non sia più economicamente sostenibile. Al-Naimi sta tentando di fiaccare l’industria americana dello shale oil e shale gas per evitare che i suoi ulteriori sviluppi rendano marginale il tesoro dell’oro nero saudita. Qualche analista, difatti, prevede che il prezzo possa scendere anche a 60 dollari al barile. Ma c’è anche un’altra versione, opposta alla prima e più "complottista", secondo la quale i sauditi starebbero facendo precipitare le quotazioni per aiutare gli Stati Uniti a indebolire gli storici nemici Russia e Iran. In entrambi i casi, pazienza se le prime vittime di questa strategia saranno probabilmente alcuni dei sodali dell’Opec. In un mondo che la crisi ha reso più rissoso che mai, la monarchia dei Saud non sembra molto preoccupata per le sorti del Venezuela "bolivariano" o della crescita economica nigeriana. E forse nemmeno per quelle di quel vecchio cartello chiamato Opec.