«Siamo con voi. Ciò che questo porto può significare per la Calabria e per il Sud non deve restare senza risposta». Si è conclusa con l’entusiasmo del vescovo
Francesco Milito, la prima visita della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi al porto di Gioia Tauro, il principale scalo commerciale italiano. Un evento inedito e letteralmente diocesano, dal momento che insieme al vescovo ieri mattina hanno varcato il gate ben settanta sacerdoti, cioè tutto il clero di Oppido e Palmi: «Il Papa ci invita a costruire una Chiesa per le periferie esistenziali – ha spiegato il presule – e noi con questa visita vogliamo metterci un piede dentro, vivere dove lavorano tutti i giorni i nostri fedeli e dove approdano ogni anno migliaia di marittimi, cristiani e non, offrendo loro un abbraccio di fraternità». Gioia Tauro dà lavoro a 1.300 persone, il 65% dei quali risiede nei comuni della Piana, quindi in territorio diocesano, e il 99,5% in Calabria. «Questo per noi è un luogo di pastorale da anni, ma oggi vogliamo sperimentare forme nuove e un maggiore impegno del laicato», ha spiegato il cappellano del porto, don Gildo Albanese, succeduto a don Natale Ioculano, oggi direttore dell’Ufficio nazionale per l’apostolato del mare della Cei. Recentemente, la Conferenza episcopale ha aperto la strada a una presenza più incisiva della comunità cattolica all’interno dello scalo marittimo, attraverso l’associazione Stella Maris, che qui ha già un presidio. Il vescovo Milito, che in ottobre, nell’ambito delle giornate di approfondimento ha portato il clero in visita al carcere di Palmi, intende incentivare lo sviluppo di Stella Maris e il dialogo con una realtà, che rappresenta la più grande risorsa economica della regione. Il 51% del prodotto interno lordo calabrese generato dal settore privato nasce in questi 700 ettari di banchine e di piazzali, che non sono mai diventati quel polo siderurgico ed energetico per cui erano nati. Dagli anni Novanta, il gruppo Contship, attraverso la Medcenter container terminal, ne ha fatto uno dei nodi del sistema logistico mondiale: oggi qui si movimentano container, raramente si scarica per mettere su gomma o rotaia, poiché il sistema viario è quello che è e le ferrovie italiane non considerano questo porto un loro business. Ciò nonostante, Gioia Tauro resta il 47° porto mondiale per il transhipment: «Siamo collegati con 120 scali perché geograficamente favoriti, rispetto alla rotta Port Said-Gibilterra – ha spiegato Domenico Badalà, amministratore delegato di Mct (Contship Italia) – ma rischiamo di perdere posizioni perché i nostri costi sono elevatissimi rispetto ai concorrenti del Nord Africa». Oltre a ribadire che Gioia Tauro non è più, e da tempo, una cattedrale nel deserto, ed anzi può essere considerata una delle poche partnership vincenti tra pubblico e privato (Mct è concessionaria per cinquant’anni dello scalo), la visita è servita anche per rilanciare il progetto della zona economica speciale, ferma in Parlamento, malgrado la Commissione europea, interpellata dall’eurodeputato Pino Arlacchi, abbia confermato che la Zes, com’è stata progettata a Gioia Tauro, non ricadrebbe tra gli aiuti di Stato vietati dall’Ue. «Quando lo sviluppo è fondato sul lavoro e non sulla speculazione è un bene per l’economia ma anche per la Chiesa», ha commentato Milito, auspicando che il confronto sul progetto si velocizzi. «Se Gioia Tauro perde traffico, tutta l’Italia perde Pil – ha ribadito Badalà – perché i nostri concorrenti nel transhipment non sono i porti italiani. Dallo sviluppo di questo scalo dipende la capacità di una buona parte del Mezzogiorno di dare una prospettiva di futuro ai suoi giovani e sottrarli al richiamo delle mafie». Negli ultimi anni, il porto calabrese ha recuperato posizioni anche nella lotta all’assenteismo, che sembrava una malattia endemica. Piaga di cui la Chiesa si fa carico: «Noi sentiamo di dover esercitare un magistero morale nei confronti dei calabresi – ha commentato al termine della visita don Albanese – nell’insegnare ai giovani che la difesa.