Il bonus da un miliardo inserito nel ddl stabilità non basterà neanche per iniziare la lotta alla povertà. In sette anni è raddoppiata – gli italiani indigenti sono passati dal 4 all’8% e il 6,8% non dispone dei beni essenziali per la vita quotidiana – e poiché il tasso di inattività cresce e aumenta la popolazione anziana (con un +37% degli over85), la spesa sociale, afferma l’Anci, deve essere considerata un’emergenza nazionale.La gravità della situazione emerge da «L’Italia nella crisi», il rapporto presentato dall’Associazione dei Comuni alla 30esima assemblea che si concluderà oggi a Firenze. Nel dossier si evidenzia che la povertà assoluta sta crescendo al Nord (dal 32,4 al 39,2%) e calando al Sud (dal 50 al 46%), colpendo soprattutto le famiglie con figli: «Oggi in Italia sono le famiglie numerose il soggetto a maggior rischio di povertà» sottolineano i ricercatori.È allarme sociale anche per la povertà relativa (individuata da una spesa mensile inferiore ai 990 euro per due persone) che riguarda una platea di 3,2 milioni di famiglie (12,7%), 9,5 milioni di italiani (15,8%). Cresce, e di molto, se si parla di famiglie numerose (29,8%) o monogenitore (14,8%). Sul piano tendenziale, si registra un incremento, «avvenuto soprattutto tra il 2011 e il 2012» quando l’incidenza della povertà relativa è passata dal 4,9 al 6,2% al Nord, dal 6,4 al 7,1% al Centro e dal 23,3 al 26,2 al Sud. Se nel 2005 il 70% della povertà relativa era concentrata al Sud, nel 2012 il Nord è passato dal 20 al 23,5% e il Mezzogiorno è sceso al 65,4%. In questi anni si è aggravata la condizione delle famiglie con figli piccoli: la povertà relativa dei nuclei con un minore è passata da 11,5 al 15,7. Capitolo lavoro: la quota delle famiglie povere tra quelle con capo famiglia disoccupato è passata dal 27,8 nel 2011 al 35,6 nel 2012. Della disoccupazione (12,2%, ma 13,1 le donne che diventano il 21,6 al sud) cambia la geografia: se i valori assoluti continuano a condannare il Sud, la disoccupazione tra il 2007 e il 2012 è cresciuta soprattutto nel Nord.Per tamponare la crisi, in questi sette anni i Comuni hanno aumentato del 34% la loro spesa sociale. Famiglia e minori, anziani e disabili, insieme a tutte le altre categorie svantaggiate assorbono oggi il 17,1% dei bilanci comunali. Nel 2010 la spesa sociale locale ammontava a 7,1 miliardi (il 63% proviene dalle casse comunali mentre lo Stato finanzia il 16% e le regioni il 15,2), ma secondo il responsabile welfare dell’Anci, il sindaco di Vicenza Achille Variati, non si può continuare con interventi-tampone. Il dimezzamento del Fondo nazionale per le politiche sociali e, via via, l’azzeramento della quota destinata ai Comuni, è stato fatale: nel 2012, scrive il rapporto «questa tendenza è drammaticamente precipitata e il fondo constava di 10 milioni contro i 670 del 2008» (nel 2013 è stato riportato a 343,7 milioni). A fronte dei tagli statali, nello stesso periodo i Comuni hanno aumentato la loro spesa sociale del 6% all’anno, segno che scegliere gli ultimi si può, anche se costa.Ora Variati chiede allo Stato di «assicurare al povero la dignità» e l’Anci sposa il progetto di un «reddito minimo che non dev’essere inteso come assistenzialismo, va accompagnato da un programma di inclusione sociale». Il contributo deve scattare cioè sotto la soglia di povertà ma inserito entro un patto tra il cittadino indigente e l’amministrazione pubblica. Lo strumento potrebbe essere creato in seno all’Inps e avere le fattezze di quell’Istituto nazionale per il contrasto alla povertà di cui si parla già al Ministero del welfare. «Per funzionare servono almeno sette miliardi» osserva Variati e chiede al governo di pensare anche al Piano nazionale di sostegno ai non autosufficienti. Occorrerebbe un altro miliardo. «Letta ha lanciato dei segnali importanti, come i 35 milioni destinati ai minori stranieri non accompagnati – ha ammesso ieri Variati –, ma non è ancora una politica organica».