Un «patto aperto» contro la povertà, un’alleanza per introdurre nel nostro Paese il Reddito d’inclusione sociale (Reis) e farsi carico così di quei 4,8 milioni di italiani che oggi sono ridotti in miseria. La proposta parte dalle Acli, in collaborazione con la Caritas italiana, ed è rivolta anzitutto alle associazioni del Terzo settore, alle parti sociali e alle rappresentanze istituzionali per sollecitare la politica a trasformare il progetto in legge entro la fine dell’anno, così da poter partire già nel 2014. Un appello subito raccolto dal governo, con il ministro del Lavoro Enrico Giovannini che ieri ha annunciato la creazione di un gruppo di studio che dovrà elaborare una proposta condivisa entro settembre, per poter tentare di inserire il Reis già nella prossima legge di stabilità in autunno.
Lo strumento da mettere in campoL’idea è quella di assicurare, a chi si trova in povertà assoluta – cioè «privo di beni e servizi necessari a raggiungere un livello di vita minimamente accettabile» – insieme mezzi di sostentamento e servizi finalizzati all’uscita dalla condizione di disagio. A tutte le famiglie, comprese quelle straniere purché regolarmente residenti in un comune italiano da almeno un anno, verrebbe quindi versata la differenza tra il proprio reddito e la soglia di povertà assoluta, che attualmente varia, in base alla zona di residenza, da 537 a 806 euro al mese per una persona sola. A far fede della situazione di bisogno sarebbero tre strumenti: la dichiarazione dei redditi, la situazione Isee ma anche l’indicatore dei consumi presunti, con controlli severi per evitare abusi. Al trasferimento monetario, poi, si accompagna l’erogazione di servizi come quelli all’impiego, contro il disagio psicologico, per esigenze di cura e altro. E qui, oltre ai diritti, scattano anche i doveri. Tutti i componenti la famiglia tra i 18 e i 65 anni abili al lavoro, per ricevere gli aiuti monetari dovranno accettare offerte di lavoro congrue o seguire corsi di formazione e riqualificazione. Nel caso di indisponibilità non giustificata, il trasferimento verrebbe ridotto inizialmente del 20% e verrebbero attivati i servizi sociali per ulteriori interventi di accompagnamento. L’intero complesso di aiuti verrebbe gestito a livello locale, con i Comuni a fare da registi e il Terzo settore a co-progettare gli interventi assieme agli altri soggetti istituzionali come Asl e centri per l’impiego.
La spesa e il finanziamentoFin qui la struttura del progetto, ma quanto sarebbe il costo e dove trovare le fonti di finanziamento? A regime la spesa viene stimata intorno ai 5,5 miliardi l’anno, comprensivi sia dei trasferimenti monetari sia dei costi per i servizi. «L’idea è quella di procedere per gradi, iniziando nel 2014 con uno stanziamento di 1,3 miliardi di euro e giungere poi a regime in 4 anni – spiega Cristiano Gori, docente di politica sociale alla Cattolica di Milano, che ha coordinato il gruppo di lavoro sul progetto –. Si partirebbe dalle persone in condizione di bisogno assoluto per poi allargare il cerchio e arrivare a regime a coprire quel 6,8% di famiglie italiane che oggi vive in povertà assoluta». Un intervento significativo per le casse dello Stato, possibile in una situazione così difficile? «Partiamo da un dato: oggi il nostro Paese spende per il contrasto alla povertà circa lo 0,1% del Pil, in Europa la media è lo 0,4%, il quadruplo – spiega ancora Gori –. Il nostro progetto a regime stima un impatto dello 0,34% del Pil. Si tratterebbe dunque solo di adeguarsi al resto d’Europa, visto che siamo gli unici, assieme alla Grecia, a non disporre di un reddito minimo garantito. Dove trovare i soldi? Noi avanziamo una serie di proposte di razionalizzazione della spesa e di nuove possibili entrate. Se si applicano i principi di concretezza, equità ed efficienza, i soldi necessari a introdurre il Reis si possono trovare. Basti considerare che la spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito, è pari al 45% del Pil. Non è impossibile ritagliare con il bisturi uno 0,3%». E infatti nelle tabelle allegate al piano di Acli e Caritas sono indicate varie voci sia di maggiori entrate – dalle accise su tabacchi e alcol alla revisione delle imposte di successione e sui concorsi a premio – sia di minori uscite come la riduzione della spesa pubblica per servizi generali o il riordino delle integrazioni al minimo e delle pensioni sociali, «in grado di "assicurare" tra i 13 e i 18 miliardi di euro».
L’intervento necessarioC’è infine l’obiezione di chi contesta lo strumento in sé del reddito minimo, di coloro che temono l’effetto "fannullone", chi cioè si adatta a vivere con i sussidi e non fa nulla per migliorare la propria condizione, anche se giovane e abile. «La nostra proposta prevede dei disincentivi per chi non assicura la propria disponibilità a lavorare. Ugualmente sono previsti controlli severi e monitoraggi – conclude Gori –. Ma, detto questo, la domanda va ribaltata: per il timore che qualcuno faccia il furbo o che una parte dell’utenza comunque non verrà resa autonoma, possiamo lasciare 5 milioni di persone, tra adulti e bambini, nell’indigenza senza intervenire?».