lunedì 4 novembre 2013
Il territorio del Brenta: non si vive di solo export, ora serve meno burocrazia. Intanto nel settore calzaturiero tornano a investire le grandi griffe (e i cinesi).
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La beffa più grande per un territorio che ha saputo giocare d’anticipo e disinnescare la crisi, è che ancora oggi manca la banda larga e i file delle produzioni più sofisticate si spediscono via corriere. Non sono scene di qualche lustro fa. Accade davvero nel distretto del Brenta, dove i maestri del calzaturiero che ogni giorno sfornano le scarpe per le donne del pianeta, si trovano costretti a operare in condizioni paradossali. «Questa è la miopia di chi ci governa» osserva Gianpiero Menegazzo, direttore e anima del consorzio Acrib, l’associazione che ha sede a Stra, nel Veneziano, e che riunisce piccoli e grandi artigiani della Riviera. Il gigante pubblico fa storicamente fatica, in questa terra, ad assecondare gli istinti e i progetti delle laboriose formiche imprenditoriali che creano, distruggono, riqualificano, inventano, si spostano. «La difesa del territorio per noi è un fatto culturale» spiega Menegazzo e fa niente se i tempi della politica sono lentissimi, se ci si preoccupa di più delle misure di abbattimento delle nutrie lungo un canale che degli investimenti da fare. Se il processo di ristrutturazione industriale in atto un po’ ovunque, tra Venezia e Padova in parte si è già compiuto, è anche merito di chi ha saputo guardare oltre la contingenza. Tra la metà degli anni Novanta e il 2007, in questo distretto hanno chiuso 330 aziende senza che un solo dipendente perdesse il posto. Merito della formazione portata avanti dai centri d’eccellenza locali, che hanno permesso a 11mila persone di ricollocarsi. Le imprese del calzaturiero hanno intuito prima i venti della crisi internazionale in arrivo e hanno reagito, ma i rischi di una caduta non sono ancora del tutto scongiurati. A preoccupare è la «pancia» del territorio, quel 50% di produttori che non ha ancora fatto un salto di qualità nelle dimensioni e non dispone di un brand. Soffrono soprattutto i «piccoli», dunque, mentre cresce l’alto di gamma e si difende con successo quel ceto medio che ha la testa sul territorio e le gambe in giro per il mondo.Il peso dei controlli<+tondo>«Ma esportare non basta più e non basta più nemmeno saper fare bene le cose» lancia l’allarme il presidente dell’Acrib, Siro Badon. Che nel mirino ha soprattutto la burocrazia, «ispettori del lavoro e funzionari dello Stato passano settimane nelle nostre fabbriche, uno dice una cosa e un altro l’opposto». La sensazione è che invece qui adesso serva proprio lo Stato, un sostegno quasi fisico agli industriali che da soli non ce la fanno. «Nelle Marche danno 22 milioni per il calzaturiero, in Veneto solo 100mila euro» continua Badon. Ci fosse almeno l’appoggio delle banche, invece il rapporto col credito resta problematico. «Da quando Antonveneta è entrata nell’orbita di Montepaschi, non abbiamo più una banca veneta e ne sentiamo fortemente la mancanza. Non possono pretendere che gli artigiani ogni anno facciano un piano industriale».«Questa crisi è principalmente una crisi di liquidità, che ha colpito anche chi aveva i soldi» conferma Daniele Salmaso, director della Twi, un’azienda familiare che ha completato con successo il passaggio generazionale. Nella sua fabbrica lavorano i veri maestri: quelli che, a mano o con i macchinari più sofisticati, mettono a punto i modelli destinati alle prossime stagioni della moda internazionale. Tacchi, suole e solette prendono forma in ambienti ultramoderni, dove vengono assemblati a ritmi vertiginosi. Tante le donne chiamate a lavorare su scarpe che un domani magari indosseranno star internazionali del cinema e della musica, buona anche la presenza di operai stranieri.I marchi del lusso«La difficoltà più grossa resta quella di trovare giovani che vogliano fare questo lavoro» confida Salmaso. Più fiducioso è invece Mauro Zampieri, che insieme ad altri imprenditori ha fondato la Corte della Pelle, primo contratto di rete per il settore calzaturiero italiano. «Vedo freschezza nelle nuove generazioni, il loro contributo di idee sarà fondamentale per il futuro di tutto il distretto» osserva, mentre mostra il nuovo punto vendita aperto al pubblico, che riunisce quattro storie di impresa diverse. Una sinergia inedita, per un territorio in cui le imprese hanno sempre mantenuto una grande ritrosia nel condividere, con altri, segreti e ricchezze. Ora a spingere verso l’aggregazione è la voglia di lanciare un messaggio, nel piccolo, alla grande distribuzione: si sperimentano soluzioni nuove, dalle boutique ai negozi fino agli outlet. Vendere è diventato importante quasi come produrre, ancora di più da quando questa terra è tornata a essere un’irresistibile attrazione per i grandi marchi della moda, da Louis Vuitton ad Armani, da Prada a Gucci. «I big del lusso sono qui perché in dieci chilometri trovano la filiera completa, fatta di saperi e di professioni» argomenta Menegazzo. Nel comparto delle tomaie, nel frattempo, sono comparsi anche i cinesi: cento piccoli produttori tra loro sono regolarmente iscritti alla Camera di Commercio. «Non sono una giungla, anzi. Vanno certamente controllati perché rispettino la legalità, ma non è questo il problema. Il problema è che, in questa nicchia, si sono fermati da tempo gli investimenti degli italiani...»
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