Per spiegare il paradosso del Nord Est, Daniele Marini ricorda che «una volta in questa terra si diceva che era il lavoro a cercare le persone. Oggi sono le persone a cercare un lavoro e non è detto che basti». Il laboratorio del futuro, la locomotiva d’Italia che creava opportunità occupazionali quotidianamente oggi sembra doversi arrendere, nella migliore delle ipotesi, a un ritorno alla crescita senza più posti disponibili per i giovani. Quel che è accaduto negli anni della Grande Crisi, secondo il professore di Sociologia dei processi economici dell’Università di Padova, da sempre anima della Fondazione Nord Est, è un vero e proprio cambiamento identitario: negli anni in cui le cose andavano bene «si lavorava di più e si lavorava tutti. Oggi non è più così».
Cosa è cambiato?C’è sicuramente un problema di tipo industriale: stanno diminuendo le imprese che lavorano sui prodotti legati ai consumi, alla moda, al tessile e agli elettrodomestici. Ci si sta spostando sulla nuova meccanica, perché il manifatturiero non scomparirà, ma dovrà essere abbastanza diverso da come lo intendiamo oggi. Sarà immateriale e richiederà più ricerca, più innovazione e più comunicazione. Nello stesso tempo, dovrà crescere il settore dei servizi collegato alle aziende: il Nord Est del futuro già oggi scommette sulla logistica, sul trasferimento tecnologico e sui servizi alle persone. In una fase difficile come questa, è evidente che il nostro tallone d’Achille è stata l’assenza di un terziario davvero sviluppato.
Che risposte immediate si possono dare ai lavoratori?I lavoratori hanno capito, in alcuni casi prima e meglio di altri, quanto stava accadendo. Sono stati i primi a spingere affinché le loro imprese affrontassero insieme le difficoltà, con veri e propri processi di aggregazione. Il punto è che i territori che potevano contare su risorse pubbliche hanno potuto prendere tempo, mentre altri sono dovuti intervenire prima che la situazione esplodesse. Ma resto convinto che esistano nuove opportunità professionali per tutti, sulla base del riposizionamento industriale in corso.
Nel libro "Innovatori di confine" (Marsilio) lei fa riferimento alla necessità di creare consorzi tra le aziende, assegnando un ruolo strategico anche alle associazioni di impresa. È un processo che si è già attivato?Si avverte una maggiore sensibilità nel mettersi insieme, ma resta difficile che scattino meccanismi di difesa diffusi sul territorio. Spesso sono casi limite, com’è accaduto con Benetton, a spingere i "piccoli" a ricompattarsi e a reagire. Poi c’è un problema che attiene ai manager: i capi azienda devono riuscire ad anticipare e a capire le trasformazioni del mercato, ma non sempre ce la fanno.
Come giudica le scelte delle multinazionali che, a differenza del passato, oggi non esitano a fuggire, lasciandosi alle spalle disoccupazione e deserto industriale?Va fatta una riflessione di carattere etico: ci sono grandi imprese guidate da fondi finanziari internazionali che hanno dimostrato di non avere interesse a legami duraturi con il territorio. Per noi vale il contrario: l’azienda è innanzitutto un valore sociale, un simbolo di radicamento nel territorio. Quando un grande gruppo se ne va, fa danno ai propri lavoratori, ai fornitori e alle stesse comunità.
Perché il rapporto con la politica rimane problematico?Finchè l’economia tirava, istituzioni ed enti locali si limitavano ad andare al traino e ad assecondare gli effetti della crescita. Il non governo, in alcuni casi, ha portato a effetti perversi come la saturazione del territorio, con fabbriche che sorgevano ovunque. Oggi c’è di nuovo bisogno di una classe dirigente consapevole delle sfide e in grado di disegnare il futuro. La locomotiva ha perso slancio, ma deve di nuovo trovare la forza per tornare a correre.