S'incupisce davvero, Antonio Hernandez Callejas, se gli dai dello straniero: «Ma no, noi spagnoli non siamo stranieri per gli italiani…». Effettivamente, questo signore dai modi garbati non può essere considerato uno straniero che fa shopping in casa nostra: il presidente di Ebro Foods entra ed esce dal salotto buono del made in Italy da almeno vent’anni. Prima il riso coi Ferruzzi (di quell’operazione resta la Mundi Riso di Vercelli), poi l’olio (Bertolli, Carapelli e Sasso, portafoglio Deoleo) e adesso nuovamente il riso: dallo scorso anno il gruppo spagnolo è socio al 25% di Riso Scotti, partecipazione che può crescere fino al 40%. Si diceva che avrebbe comprato anche Agnesi (e quindi Riso Flora) da Colussi, ma ha smentito. Seduto a fianco di Dario Scotti, nello studio del "dottore" più noto della tv, il re spagnolo dei primi piatti (60 marchi di pasta, riso e sughi in 25 paesi) ci spiega perché convenga comprare made in Italy. Non è solo questione di brand e di canali distributivi: «Chi entra in una società italiana come la Scotti acquista la "legittimità" di proporre al mercato un prodotto di qualità. Con Riso Scotti, ad esempio, vogliamo esportare nel mondo il risotto: bisogna educare gli altri popoli a cucinarlo, certo, ma la cultura e la tecnologia sviluppata a Pavia ci permetteranno di diventare leader mondiali anche in questo campo».Chi invece si porta in casa lo straniero, anche se è un vecchio amico come in questo caso, e se lo fa dopo 150 anni di fedeltà assoluta al capitalismo famigliare, «punta ad ottimizzare i propri processi industriali e ad aprire nuovi canali commerciali - spiega Dario Scotti -. Nel nostro caso, era necessario potenziare l’esportazione, perché in un momento di contrazione dei consumi alimentari riuscire a dialogare su una dimensione più ampia è decisivo». L’imprenditore italiano ammette che «il momento migliore per espandersi erano gli anni Novanta ma a quel tempo non eravamo pronti». In realtà, quello di Scotti non è più da tempo un mercato solo nazionale - il 45% del fatturato (219 milioni nel 2013) è prodotto all’estero - ma è vero che mentre Herba diventava il maggior produttore di riso mondiale e la capofila Ebro Foods si buttava sulla pasta fino a diventare il secondo produttore globale (l’ultima acquisizione è la canadese Olivieri per 120 milioni di dollari) , il "dottore" investiva nel mercato interno, conquistandone la leadership e reinvestendo gli utili nell’innovazione, a partire da bevande vegetali e risi precotti. Negli stessi anni, partiva l’operazione Romania: 80mila ettari di risaie e uno stabilimento da cui oggi il gruppo italiano rifornisce il mercato romeno, ucraino e turco, ma soprattutto la Russia, che è il vero target degli spagnoli. Tutto questo, senza un soldo pubblico. «Non ne abbiamo chiesti e comunque non ce li avrebbero dati; questo è un mondo per privati» conferma Scotti. E il socio: «Una volta in Spagna potevamo contare su un fondo statale, adesso dobbiamo fare tutto da soli». Hernandez non perde occasione per sottolineare il basso indebitamento del suo gruppo, terreno su cui sono scivolati altri colossi iberici: nel 2013, il debito è sceso da 1,2 miliardi a 245 milioni e l’utile netto è stato di 132, 7 milioni; agli azionisti sono stati versati dividendi per 92 milioni di euro, dopo una serie di onerose acquisizioni in India, Canada e, appunto, Italia. Lo shopping per Ebro potrebbe non essere finito qui ma l’amore per il made in Italy, ammette il suo presidente, non è incondizionato: fino all’anno scorso possedeva l’8,27% della Deoleo, la società che controlla Bertolli e Carapelli e che in queste ore sta passando di mano. Hernandez ha iniziato a vendere le sue quote già in febbraio e ora possiede solo il 2,9%. «L’olio è un prodotto nobile ma si guadagna poco» è il suo commento. Il resto è cronaca.