«Discutere adesso se il Jobs act funziona o meno credo sia prematuro. Non è troppo presto, invece, per cominciare a interrogarsi su quali strategie adottare sugli incentivi e su quali siano le priorità per l’occupazione e la ripresa». Marco Leonardi, docente di Economia politica alla Statale di Milano e fra i consulenti del governo, taglia corto sul commento ai dati di giugno sull’occupazione.
L’Istat conferma un andamento negativo. L’occupazione non cresce, anzi cala in maniera significativa rispetto a un anno fa. Non penso che si possa rincorrere i dati mensili dell’Istat, basati su interviste, o quelli delle comunicazioni obbligatorie sui contratti, una volta cantando vittoria e l’altra deprimendosi per il calo degli occupati. E soprattutto non possiamo far derivare da questa lettura il giudizio sulla riforma del mercato del lavoro. Per dire se il Jobs act funziona occorre attendere almeno un anno, meglio due. Prima c’erano quelli che avevano atteso gli incentivi per effettuare le assunzioni, poi gli imprenditori in attesa dell’abolizione dell’articolo 18, a fine anno forse ci saranno quelli che faranno delle assunzioni per non perdere gli incentivi... ma così non si riesce a valutare gli effetti reali della riforma.
Però finora i risultati numerici non paiono entusiasmanti, soprattutto se si considera che in due anni si finiranno per spendere quasi 10 miliardi di incentivi vari... Ripeto: aspettiamo per dare un giudizio compiuto sulla riforma. Quanto agli incentivi, invece, si può discutere di come mirarli al meglio e come scongiurarne un uso 'strumentale' da parte di alcune imprese. Ad esempio evitando che in futuro si possa goderne se il lavoratore ha avuto per sei mesi un contratto a termine o interinale, per evitare che alcune aziende prima licenzino o 'passino' i dipendenti a società compiacenti, per poi riassumere con gli incentivi le stesse persone.
Dopo il quadro drammatico sul Mezzogiorno tracciato dalla Svimez, che cosa si può progettare per incentivare l’occupazione in quelle regioni? Il governo ha da tempo annunciato il rinnovo degli incentivi e l’intenzione di rendere stabilmente più conveniente il contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a termine. L’operazione, però, ha un costo non indifferente. Si potrebbe ipotizzare allora di differenziare gli incentivi per aree geografiche: la metà di quelli attuali al Nord e confermare invece pienamente lo sconto contributivo per chi assume a tempo indeterminato al Sud.
Ma il calo degli occupati è solo congiunturale o non deriva piuttosto dal grande cambiamento che sta subendo il lavoro con la rivoluzione tecnologica? Il cambiamento del lavoro è un fenomeno reale con il quale dovremo fare i conti. In particolare in Italia perché il nostro apparato produttivo e il nostro tessuto di piccole imprese del terziario sono ad alta intensità di lavoro ma a bassa specializzazione tecnologica. Rischiamo dunque da un lato la sostituzione con i robot della forza lavoro nelle fabbriche e, dall’altro una polarizzazione verso il basso delle figure professionali con l’erosione delle figure intermedie.
Ma in questo quadro ha senso puntare alla riduzione delle imposte sulla prima casa? È così che si aiuta la ripresa? L’idea di fondo è che si possa ridurre il peso del fisco e sfruttare invece il piano Juncker per rilanciare gli investimenti. Poi si può discutere se tagliare le imposte sulla casa sia una priorità rispetto alla riduzione di quelle sulle attività d’impresa o al calo del costo del lavoro. Ipotizzare di agire ora sulla casa, però, non è un capriccio del premier. Semplicemente il prossimo anno con la riforma della local tax sarebbe il momento giusto per farlo. Dunque, se si decide di farlo va fatto adesso, non avrebbe senso rimandare.