La disoccupazione a ottobre resta ai minimi da tre anni.
Tutto bene, anzi per niente. E non solo perché il tasso riferito alla popolazione giovanile, secondo
i dati diffusi oggi dall'Istat, è in crescita al 39,8%, quasi il quadruplo del dato medio dell’11,5%. E neppure perché, a fare da contraltare alla diminuzione di chi si attiva per trovare lavoro c’è un aumento degli inattivi, cioè di chi rinuncia in partenza a cercare un posto. Ma soprattutto perché a ristagnare è l’occupazione che non cresce. A ottobre, infatti, gli occupati calano ancora, dopo l’analoga diminuzione di settembre, di 39mila unità (-0,2%) e il tasso di occupazione rimane inchiodato a uno scarso 56,3% (-0,1%).Se anche ci si discosta dal singolo dato mensile, gettando uno sguardo più complessivo al mercato del lavoro, la visione è assai poco confortante. In un anno, infatti, coloro che un’occupazione ce l’hanno sono aumentati di appena 75mila unità, somma di un incremento di 209mila uomini e un calo di 134mila donne. Se poi si osservano le diverse classi di età ci si accorge che i giovani (15-24 anni) occupati in più in un anno sono appena 4mila, 19mila quelli tra 25 e 34 anni, mentre diminuiscono di ben 175mila unità uomini e donne tra i 35 e i 49 anni e crescono notevolmente solo gli ultracinquantenni, con ben 226mila occupati in più. In aumento, in tutte le fasce di età, poi, gli inattivi, segnala l'Istat.
Che cosa lasciano intravvedere allora questi dati? Anzitutto confermano che
la nostra ripresa economica è ancora molto fragile e che siamo appena sopra la linea di galleggiamento. Si recupera forza lavoro prima “parcheggiata” fuori dal mercato grazie agli ammortizzatori sociali, ma di nuovi posti se ne creano davvero pochi. Molto pochi soprattutto se si considera che ad ottobre le imprese beneficiavano ancora degli sconti contributivi fino a 8mila euro in tre anni per le assunzioni. Operazione assai costosa per i conti pubblici, che infatti verrà rivista per il 2016 dimezzando i benefici per le aziende.
La seconda criticità riguarda la composizione della nostra forza lavoro. L’aumento così importante dell’occupazione degli over50 si spiega certamente con le nuove regole previdenziali che hanno spostato notevolmente in avanti l’età dell’uscita dal lavoro verso la pensione. Ma non di meno anche con l’invecchiamento complessivo della nostra società, nella quale i giovani sono sempre di meno, mentre i figli del baby-boom degli anni ’60 restano la componente principale dell’occupazione in fabbriche e uffici. L’assai sottovalutata emergenza demografica, con il drastico calo delle nascite dagli anni ’80 in poi, comincia a presentare il conto.C’è però un altro aspetto che si può leggere in filigrana ed è quello che potremmo definire
l’”illusione legislativa”. La chimera che potessero bastare le riforme - quando anche necessarie e positive – per rilanciare il motore produttivo delle aziende. Non è così, purtroppo. Come dimostrano i dati di ottobre, il Jobs act e gli sgravi contributivi hanno solo “oliato” meglio i meccanismi del mercato del lavoro senza però fornire una spinta decisiva. Quella che può venire solo da due fattori – la capacità di innovazione e l’aumento di produttività – che sono interamente nelle mani di imprese e lavoratori, dei loro rappresentanti. Solo le persone possono iniettare nel sistema l’energia capace di far compiere alla nostra economia e all’occupazione il tanto desiderato salto di qualità.