IMAGOECONOMICA/PAOLO CERRONI
Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, quali sono le criticità e i punti di forza del Paese sul piano economico e sociale?
Cresce il Pil, gli indicatori sono mediamente positivi. Aumenta l’occupazione, ma non per tutti. Cresce l’economia, ma non cresce il Bes del Paese, il benessere equo e sostenibile del Paese. Soprattutto non c’è una crescita eterogenea, condivisa. Sono troppi, tra persone e territori, a restare indietro. È una crescita sbilanciata con difficoltà acuite dall’inflazione, con un costo della vita che diventa insostenibile per fasce sempre più ampie di italiani.
Pil e bene comune non sempre vanno di pari passo e talvolta sembrano in contraddizione, come oggi di fronte alle sfide della transizione ecologica. Come conciliare i due aspetti? Perché c’è bisogno di un’economia civile?
Vanno rivisti i modelli di crescita e di sviluppo. Occorre mettere le persone al centro e cambiare prospettiva: un utile in meno, ma un occupato in più. Non viceversa. Abbiamo molti, troppi esempi che ci dicono che quando l’economia risponde innanzitutto alla mera remunerazione del capitale accentua le diseguaglianze. La finanziarizzazione dei modelli economici è in crescita e con esse l’acuirsi delle differenze. La transizione ecologica è una risorsa, creerà nuove opportunità, ma escluderà anche molti lavoratori, per questo occorre puntare sulla formazione per riqualificare chi rischia di restare escluso dal mercato del lavoro. Le grandi trasformazioni, se non sono opportunamente guidate, rischiano di lasciare in eredità il peggio.
Il tema della disuguaglianze economiche è tornato in primo piano negli ultimi anni sulla scorta di una maggiore polarizzazione sociale che tende anche ad alimentare populismo e antipolitica. Una dinamica preoccupante, secondo lei? Come invertire la tendenza?
Le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni, erano 800.000 nel 2005: parliamo di 5,6 milioni di persone. La povertà relativa riguarda invece 2,9 milioni di famiglie e 8,8 milioni di persone. Circa 3 milioni di famiglie vivono nel sovraffollamento. Drammatica la situazione del 12% di italiani che nel 2022, secondo il Censis, hanno scelto di non curarsi per mancanza di disponibilità economica pur avendone bisogno. Dati ulteriori che ci impongono di cambiare modello.
I numeri dell'occupazione non sono negativi. Ma c'è un problema anche di qualità del lavoro, di impieghi che siano qualificanti per le persone. E c’è il problema delle retribuzioni, oggi particolarmente esposte di fronte all’inflazione. Come intervenire?
Abbiamo 3,8 milioni di lavoratori poveri che ricevono una retribuzione annuale uguale o inferiore ai 6.000 euro. Sono lavoratori che alle difficoltà del presente si aggiungeranno quelle del futuro con pensioni bassissime. Inoltre oggi assistiamo a un connubio tra l’inflazione e la speculazione che non aiuta i deboli mentre aiuta gli speculatori a trarre ancora più profitto. Va ridotto il cuneo fiscale e contributivo e vanno potenziati gli strumenti di politiche attive.
Qual è la sua opinione sul salario minimo?
La soluzione al salario povero non è nel salario minimo ma nel rafforzamento dello strumento contrattuale. Al Cnel sono depositati oltre 1.000 contratti. È una giungla in cui trovano riparo sigle il cui unico scopo è quello di legittimare contratti con retribuzione più basse e meno diritti per i lavoratori. I contratti collettivi di riferimento devono essere quelli sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative.
Molti giovani italiani vanno all'estero attratti da possibilità di lavoro che non trovano in patria, dove il lavoro è spesso precario e la pensione futura un’incognita. C'è un tema di equità intergenerazionale?
Nella fascia 18-35 anni abbiamo 3,2 milioni di Neet. Ben 500.000 giovani nella fascia 18-24 anni, abbandonano i percorsi di formazione senza aver conseguito un titolo di studio. A questi ragazzi prima che un lavoro dobbiamo dare una speranza, un orizzonte. Occorre garantire loro gli strumenti formativi attraverso cui sappiano valorizzare le loro propensioni. Per coloro invece che hanno già investito nella loro formazione occorre un mondo del lavoro che sappia valorizzare le competenze acquisite con prospettive di crescita personali e livelli retributivi adeguati. Per centrare questi obiettivi dobbiamo fare in modo che nelle imprese italiane cresca la produttività media, ancora troppo lontana da quella dei principali Paesi europei».