mercoledì 6 marzo 2019
Sì di 26 Stati membri, astenuti Italia e Gran Bretagna. In vigore da aprile le nuove norme. Obiettivo: evitare il transfer di tecnologie. Nel mirino la Cina
Investimenti esteri sensibili. La Ue attiva il nuovo radar
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Sarà in vigore da aprile il nuovo regolamento europeo per il controllo degli investimenti di Paesi terzi verso l’Ue, per evitare il transfer di tecnologie sensibili verso colossi stranieri, Cina in testa. Ieri infatti è arrivato il via libera definitivo di 26 dei 28 Stati membri, dopo il sì del Parlamento Europeo. Astenuti la Gran Bretagna (che a fine mese dovrebbe uscire dall’Ue) e l’Italia. Ironicamente, era stata proprio Roma, con il precedente governo di centro-sinistra, a chiedere nel febbraio 2017 a Bruxelles insieme a Germania e Francia una normativa per difendere l’Europa dagli appetiti di Paesi come Cina e Russia. Il regolamento prevede un meccanismo di cooperazione in cui, si legge in un comunicato, «gli Stati membri e la Commissione saranno in grado di scambiare informazioni e sollevare preoccupazioni specifiche» su investimenti nei rispettivi Stati membri da parte di Paesi terzi, rivelando anche la struttura societaria dei possibili investitori. Ai singoli Stati Ue rimarrà la facoltà di decidere autonomamente di bloccare investimenti esteri «per motivi di sicurezza e ordine pubblico».

Resta competenza nazionale anche l’eventuale creazione di meccanismo di controllo nazionali, come esistono già in 12 Stati Ue (Italia, Austria, Danimarca, Germania, Finlandia, Francia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito). La Commissione Europea potrà formulare pareri per singoli casi di investimenti a rischio, o quando un investimento «potrebbe incidere su un progetto o un programma europeo di interesse per tutta l’Unione», come Horizon2020 o il programma satellitare Galileo. Nella comunicazione «Welcoming Foreign Direct Investment» del 2017, la Commissione ricorda che «per la fine del 2015 lo stock di investimenti dall’estero nell’Ue era pari a 5.700 miliardi di euro contro 5.100 miliardi negli Usa e 1.100 miliardi in Cina». In testa alla classifica Stati Uniti (41,4%) e Svizzera (10,8%). Il punto è che crescono notevolmente gli investimenti da Paesi come la Cina, che utilizzano fondi di investimento e imprese sotto controllo statale. E lo stock di investimenti cinesi diretti nell’Ue è schizzato dai 6 miliardi di euro nel 2015 a 37 miliardi nel 2016. Il rischio, avverte Bruxelles, è che «investitori privati possano tentare di acquisire il controllo o di influenza in progetti europei, le cui attività hanno ripercussioni su tecnologie critiche, infrastrutture, informazioni sensibili». Simili «acquisizioni potrebbero consentire agli Stati in questione di usare tali asset a detrimento non solo del vantaggio tecnologico dell’Ue, ma anche della sicurezza e dell’ordine pubblico».

Eppure l’Italia, rappresentata dal sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Gerace (di area leghista) ieri si è astenuta (il voto era comunque a maggioranza qualificata). La ragione addotta dal governo anche in una dichiarazione separata è in sostanza che, da un lato, il mero coordinamento non impedisce investimenti di carattere «predatorio». Dall’altro, la circolazione di informazioni su possibili acquisizioni «sospette» potrebbe rivelare ad altri soggetti la disponibilità alla vendita di una società che magari si voleva mantenere riservata. Ci sono, in realtà, anche ragioni tutte politiche: il governo giallo- verde punta molto sulla Cina (con cui c’è una task force congiunta) nella speranza di attrarre investimenti cinesi in Italia (e piazzare titoli di Stato). Nel 2018 ci sono state varie missioni nel colosso asiatico dello stesso Geraci, del ministro delle Finanze Giovanni Tria e del ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio. Il timore a Roma è di compromettere i rapporti con Pechino.

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