ANSA
Se sei ricco l’impatto vale +4,7%. Ma se sei povero il costo di un paniere di beni si impenna dell’8%. Altro che grande livella, la guerra (ma non solo) con i suoi rincari colpisce soprattutto gli ultimi: non solo l’Africa, l’inflazione alimentare sta alleggerendo il portafoglio dei ceti più poveri qui in Italia. Crescono i numeri di chi ricorre alle mense dei poveri e ai pacchi alimentari. Un dramma sociale cui si aggiunge la difficoltà economica di un’intera filiera, quella agroalimentare.
Le analisi sul settore, che hanno tenuto banco al Forum organizzato da The European House Ambrosetti a Bormio, evidenziano pesanti ricadute sui consumi e sulle famiglie italiane. Nell’ultimo decennio abbiamo speso meno su tutto (-1,1% medio annuo su tutte le categorie di spesa), tranne che per bollette, abitazione e cibo: basti pensare che la spesa alimentare è cresciuta del +2,9%. Neanche a dirlo, sono proprio quei beni maggiormente colpiti dalla crisi inflattiva: e tra battaglie per il grano e crisi climatica si prevede che dedicheremo quote sempre più alte del bilancio a pagare pasta, pane e altro cibo.
Anche perché l’inflazione corre al ritmo di galoppo e rischia di raggiungere il 10%, impattando in modo asimmetrico su consumatori e operatori del retail. I prodotti alimentari sono beni necessari e hanno una domanda anelastica: qualunque sia il prezzo non possiamo mica smettere di mangiare. Già sono 2,6 milioni le persone costrette a chiedere aiuto per un pasto: le imprese della grande distribuzione –questa la richiesta che arriva dal Forum- devono andare incontro alle esigenze delle famiglie calmierando i costi.
Ma bisogna sostenere non solo la domanda, ma anche l’offerta agroalimentare: la filiera è senza dubbio florida ma è cresciuta meno di altri (pur con una progressione del 6,2% è terz’ultima per crescita tra le filiere), è solo al quinto posto in Ue per valore dell’export e al penultimo nel cluster dei top 10 per incidente di esportazioni sul fatturato. Che fare?
Da Bormio chiedono la sburocratizzazione per usare i fondi del Pnrr e combattere il fenomeno dell’Italian sounding (fenomeno dilagante dei prodotti alimentari che ‘suonano’ come italiani e non lo sono e che sottrae al nostro export un valore di circa 80 miliardi di euro). Ma anche ridurre la dipendenza dall’estero, rafforzare il made in Italy e sensibilizzare all’educazione alimentare nella patria della dieta mediterranea. A proposito di export: nell’appuntamento di Bormio si è parlato moltissimo di Filippine, tra i paesi in forte sviluppo economico. Il Made in Italy è presente solo in modo parziale e ci potrebbero essere potenziali opportunità di investimento e crescita del business.