mercoledì 10 aprile 2013
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​Sventato l’incubo dello stop definitivo alla produzione, per l’Ilva e per l’industria dell’acciaio made in Italy non si intravedono comunque vie d’uscita a portata di mano. La situazione resta complicatissima, ma il conflitto apparentemente insanabile tra il diritto alla salute cui si appella la popolazione di Taranto e il diritto al lavoro e all’impresa cui fanno riferimento, sia pur con accenti diversi, le parti sociali è solo un aspetto, per quanto dirimente, della vicenda.In gioco c’è infatti il futuro della politica industriale del nostro Paese e, in questo senso, il primo effetto della sentenza della Consulta è quello di aver scongiurato un effetto domino che l’eventuale chiusura tout court della fabbrica avrebbe portato con sé. Stiamo parlando infatti della più grande acciaieria d’Europa, che da sola produce circa un terzo dei 28 milioni di tonnellate italiane di acciaio e dà lavoro attualmente a circa 11mila persone. Le conseguenze dello smantellamento del polo tarantino sarebbero state drammatiche anche per gli stabilimenti collegati di Genova e Novi, destinati anch’essi al blocco delle attività. Le proteste dei mesi scorsi non a caso hanno visto gli operai della multinazionale controllata dalla famiglia Riva fare fronte comune, a partire dalla Liguria, contro l’ipotesi di una chiusura del mega-stabilimento pugliese. Secondo stime circolate recentemente, i costi per la collettività (cassa integrazione, imposte e oneri sociali) sarebbero stati pari quasi a un miliardo di euro l’anno.Se nell’immediato, dunque, si può ripartire dal piano messo a punto dal governo Monti, nel medio e lungo periodo toccherà al futuro esecutivo chiarire quale sarà il destino della siderurgia e, più in generale, dell’industria pesante nel nostro Paese. L’impasse che ha travolto i palazzi della politica dal giorno delle elezioni non aiuta, ma chiunque andrà a Palazzo Chigi sa che dovrà rispondere a una domanda prioritaria: il business dell’acciaio rappresenta o no un settore strategico per lo sviluppo del Paese? Se sì, come si intende investire su tecnologie pulite e, relativamente all’Ilva, sulla complessiva riqualificazione dell’area cittadina? Nei mesi caldi della polemica, più di una voce autorevole, tra economisti e uomini delle istituzioni, si è alzata per proporre un ruolo più attivo dello Stato, finanche una possibile nazionalizzazione. Il modello c’è già ed è quello usato da Obama negli Stati Uniti per salvare l’auto. Non essendo disponibile un Sergio Marchionne, l’uomo-chiave per il futuro è stato individuato in Enrico Bondi, il «risanatore» per eccellenza. Dopo Parmalat, dunque, una nuova missione impossibile. Il nuovo amministratore delegato si troverà ad affrontare una situazione estremamente delicata non solo per le condizioni dell’Ilva, ma per la congiuntura negativa che sta attraversando il mercato dell’acciaio. Il 14 marzo scorso il gruppo ha scongiurato l’utilizzo della cassa integrazione straordinaria e la dichiarazione di esuberi, utilizzando il ricorso ai contratti di solidarietà su base annua con verifica semestrale. Ma i numeri del settore siderurgico restano molto pesanti: -5,3% la produzione interna, -23,2% il consumo, -4,7% la produzione europea. Ecco perché serve un orizzonte certo, fatto di strategia industriale e di regole: la crisi non aspetta, bisogna muoversi subito.
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