Il nuovo contratto per la Fiat di Pomigliano rappresenta allo stesso tempo la chiusura di una fase storica e il potenziale detonatore di una serie di cambiamenti. Non solo nell’organizzazione del lavoro, ma più in generale nelle relazioni sindacali, nell’organizzazione sociale e negli stessi palazzi della politica.Sul piano dei contenuti, l’intesa firmata ieri prevede un incremento salariale e chiede agli operai un nuovo modo di lavorare, maggiormente impegnativo. Assicurando come contropartita la sopravvivenza della grande industria al Sud e al Nord d’Italia, anzi prospettandone uno sviluppo futuro. Fin qui si tratta di uno scambio forte, ma tutto sommato "classico", tra produttività e salario, favorito da un regime fiscale agevolato. La discontinuità rispetto al passato è che questo scambio, per portare vantaggi ad entrambe le parti, deve essere condiviso fino in fondo, chiede un surplus di responsabilità a tutti gli attori. Anzitutto all’azienda, con l’impegno a investire, a "sfornare" nuovi modelli competitivi e ad aprirsi a una maggiore partecipazione. E poi ai sindacati nella gestione dell’intesa, fino ai singoli lavoratori, in particolare per il contenimento dell’assenteismo. Ed è su questo che si è consumata la rottura fra la Fiat, la Fiom e all’interno stesso dei sindacati. Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno ritenuto assolutamente prioritario assicurare il futuro dei lavoratori di Pomigliano (e di Mirafiori) spendendosi fino in fondo nel confronto con l’azienda sul nuovo modello organizzativo, firmando un vero e proprio "patto di responsabilità". Al contrario, la Fiom – nonostante i lavoratori di Pomigliano avessero approvato l’intesa con il referendum del giugno scorso – ha scatenato la protesta. Provocando così le condizioni per il successivo irrigidimento della Fiat, l’uscita dal contratto nazionale dei metalmeccanici e l’esclusione dei sindacati "non-firmatari" dalla nomina di delegati all’interno delle fabbriche. In definitiva un’autoesclusione, quella della Fiom. Dolorosa, che non piace a nessuno, tanto che pure Fim e Uilm hanno faticato ad accettarla e lavorano oggi perché sia solo transitoria. Ma che, nel contempo, rende la situazione del tutto chiara e può innescare una serie di cambiamenti.C’è da mutare anzitutto le regole sulla rappresentanza. Ripartendo dall’accordo già raggiunto tra Cgil, Cisl e Uil nel 2008 e boicottato proprio dalla Fiom, che voleva alzare al 60% la soglia dei sì per approvare qualsiasi intesa, riservandosi così una sorta di diritto di veto. Soprattutto, però, occorre che la Cgil in particolare scelga quale sindacato vuole essere da "grande", in uno scenario economico globale completamente mutato nel giro di pochi anni. Un’organizzazione che negozia, che sta in campo con le proprie proposte e alla fine è capace di stringere delle intese a favore dei propri rappresentati (come d’altro canto già fa buona parte delle sue categorie, firmando contratti senza clamori particolari). Oppure una confederazione immobile, isolata, in definitiva impotente, che si fa costantemente condizionare dall’ala estrema dei metalmeccanici prodiga di "no" e di un’inaccettabile violenza verbale di alcuni dirigenti che, in parte, si è già tramutata in intimidazioni ai danni di delegati e strutture di Cisl e Uil.Nell’intesa per Pomigliano, così come per Mirafiori, non viene conculcato alcun diritto fondamentale dei lavoratori, la democrazia non è affatto posta in discussione, semmai "esaltata" dal ricorso al referendum. Più semplicemente, dopo anni di immobilismo, il cambiamento di scenario nell’industria automobilistica sta facendo emergere le contraddizioni del nostro sistema, obbligando a compiere una scelta netta di modello tra conflitto e antagonismo da un lato; riformismo e partecipazione dall’altro. E a ben guardare, è la stessa sfida che attraversa come una faglia sotterranea la gran parte dello schieramento politico.