A Termini Imerese e a Portovesme si mastica una rabbia che ha lo stesso sapore. È il gusto acre della paura di essere lasciati soli: abbandonati dalla Fiat, in Sicilia, o dall’Alcoa, in Sardegna. Non è diversa, forse solo più lieve, la sensazione che prova tutto il resto del nostro Sud: presa dagli sforzi di uscire dalla crisi, l’Italia più forte rischia di lasciare sola, definitivamente indietro, quella più debole. Sono i soliti due Paesi della stessa nazione: il Nord che funziona, il Sud che non riesce a seguirlo. Ieri è stata Confindustria a confermare che niente sta cambiando: fatta 100 la media nazionale 2007-2008 degli indicatori sintetici di sviluppo economico e sociale – un indice che combina al Pil pro capite altri indicatori della situazione socio-economica di un territorio – il Centro Nord arriva a 114,9 punti, il Mezzogiorno si ferma a quota 72. «Preoccupante» scrive l’associazione degli industriali, nel notare che il distacco tra la regione più avanzata, la Valle d’Aosta, e quella più arretrata, la Calabria, è salito di cinque punti, o che le ultime 22 province della classifica sono tutte meridionali mentre le prime 22 sono inesorabilmente più a Nord di Roma. La verità è che non è un problema del Sud. Non solo, almeno. «Abbiamo tutti bisogno del Mezzogiorno» diceva la settimana passata Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia «deluso» per gli «scarti allarmanti» tra il Nord e il Sud del Paese in termini di «istruzione, giustizia civile, sanità, asili, assistenza sociale, trasporto locale, gestione dei rifiuti, distribuzione idrica». Per "tutti", aveva chiarito poco dopo il presidente Giorgio Napolitano, si intende «anche il Nord». Draghi ha poi chiesto di smetterla con i sussidi, che si sono dimostrati «inefficaci», per investire piuttosto in «applicazione»: concentrare gli sforzi sul miglioramento dei servizi, iniziando da scuole, ospedali, tribunali. Partire dai servizi, come suggerisce il governatore, è una scelta. Se si volesse cominciare da un singolo problema economico o sociale ci sarebbe da perdersi tra tutti gli indicatori che, come un coro, ripetono il ritornello di un Sud sempre indietro. L’ultimo risale a giovedì: il Censis, nel suo rapporto annuale, spiega che in Italia ci sono un milione e cinquantamila famiglie in condizione di «povertà alimentare», persone costrette a risparmiare sull’acquisto di cibo. Di queste, il 51,9% è al Sud, dove abita un italiano su tre. Su 100 famiglie, in Sardegna 10,8 hanno questo problema, in Sicilia e Basilicata più di 9. La media nazionale è del 4,4%, al Nord l’unica regione che ci va vicino è il Piemonte (4,2%). Si chiama povertà alimentare ma non è molto diversa dalla povertà assoluta che, nel 2008, dato Istat, colpiva un milione e centoventiseimila famiglie italiane. Il tasso nazionale è del 4,6%: nel Nord è al 3,2%, al Centro è al 2,9%. Al Sud schizza al 7,9%. Un milione e settecentomila meridionali si possono considerare poveri. E sono poveri perché non hanno lavoro. Il rapporto 2009 dell’Isfol mostra come il tasso di occupazione, nel Sud, nel secondo trimestre dell’anno sia sceso al 45%, due punti in meno rispetto al 47% di un anno fa. Per i giovani va anche peggio: nel Sud un giovane su due è inattivo, contro il 33% del Centro e il 30% del Nord. Il divario tra le "due Italie" si apre però ben prima del momento di lavorare: il 7,7% dei giovanissimi del Mezzogiorno – adolescenti che hanno tra i 14 e i 17 anni – ha smesso di andare a scuola e non fa più nulla. In Italia sono 126mila i ragazzi in questa situazione. Nel Nord-Est, questo tasso è del 2,8%.Ma non basta. Perché chi lavora, se lo fa al Sud, incassa meno. L’estate scorsa la Banca d’Italia ha confrontato le retribuzioni lorde 2008 tra le varie aree del Paese. Era agosto, l’Italia era tornata a parlare di "gabbie salariali", stipendi legati al costo della vita, come proposto dalla Lega: tradotto in pratica significherebbe stipendi più alti al Nord e più bassi al Sud. I dati della banca centrale erano questi: di due italiani che fanno lo stesso lavoro, quello che lavora al Sud prende, in media, tra il 15 e il 16% in meno del suo collega settentrionale. A dimostrazione che per gli stipendi, e forse non solo in quelli, il Mezzogiorno la sua gabbia ce l’ha già.