Passando dal lavoro alla previdenza la sostanza non cambia. Perché lo squilibrio generazionale permane. Anzi, semmai il gap si amplia ancor di più rispetto al piano puramente occupazionale.
Il trattamento economico di cui beneficiano mediamente i pensionati di oggi, infatti, con ogni probabilità resterà pura utopia per gli attuali trentenni, che lasceranno il lavoro tra qualche decennio (comunque più tardi sia dei loro nonni sia dei loro genitori) e dovranno fare i conti con un assegno per la vecchiaia assai inferiore.
Tale disparità di condizioni tra chi in pensione c’è adesso e coloro che ci andranno tra un bel po’ di tempo è uno dei tanti spunti interessanti emersi con la diffusione del rapporto Ocse "Pensions at a Glance 2015", presentato a un convegno dell’Inps. Dall’analisi del dossier che fotografa i sistemi previdenziali dei vari Stati dell’area Ocse, risulta come – con un’aliquota del 33% – l’Italia sia il Paese con il più alto peso dei contributi pensionistici sul la voro dipendente. Non solo: la spesa previdenziale è al 15,7% dell’intero Pil, ovvero a una quota quasi doppia rispetto alla media generale (8,4%).
A questi due andamenti si aggiunge un terzo fattore, che consiste nella sentenza della Corte Costituzionale sul blocco della perequazione delle pensioni oltre tre volte il minimo (sopra i 1.500 euro al mese) nel 2012-2013 e nei rimborsi parziali decisi dal governo. Secondo l’organizzazione di Parigi, «senza ulteriori risorse nel breve periodo si rischia un impatto sostanziale sulla spesa pubblica».
L’Osce dunque evidenzia alcune criticità nazionali. E sostiene che le riforme hanno sì migliorato la sostenibilità finanziaria del sistema, grazie all’aumento dell’età pensionabile e alla perequazione tra donne e uomini, ma l’invecchiamento della popolazione continuerà a esercitare pressione sul finanziamento. Nascono da questa considerazione sia l’invito a mettere in campo «ulteriori sforzi» sia l’avviso a presentare attenzione ai contributi obbligatori elevati che «possono abbassare l’occupazione complessiva e aumentare il sommerso».
Con l’Italia che ha le entrate contributive più elevate in rapporto al Pil, quindi, gli anziani godono di buone condizioni di vita rispetto alla popolazione (il reddito degli over 65 italiani è pari al 95,6% della media nazionale), mentre il rischio povertà si trasferisce ai giovani. I nati nella prima metà degli anni Ottanta corrono il serio pericolo di non avere in futuro un assegno pensionistico adeguato. A lanciare l’allarme – con tanto di simulazioni di assegni previdenziali per chi andrà in pensione nel 2050 – è il presidente dell’Inps Tito Boeri: «Nell’ipotesi di un tasso di crescita del Pil dell’1%, molti trentenni dovranno lavorare anche fino a 75 anni per andare in pensione. E avranno prestazioni mediamente del 25% più basse. Avremo problemi notevoli di adeguatezza, che sono destinati ad aumentare nel caso di una crescita economica minore. Questo scenario aprirà anche una questione molto seria di povertà per chi perderà il lavoro prima dei 70 anni».
La preoccupazione di Boeri nasce dai numeri. Secondo i calcoli dell’Inps, chi è nato nel 1980 riscuoterà mediamente una pensione nel 2050 pari a 1.593 euro, contro l’importo medio di 1.703 euro percepito oggi da chi è nato nel 1945. Occorre tuttavia tenere conto, aggiunge Boeri, del fatto che chi è in pensione attualmente sta ricevendo il trattamento per un periodo molto più lungo rispetto a chi la riceverà in futuro. Perciò l’istituto ha calcolato un «importo medio comparabile» che è pari a 2.106 euro. A penalizzare le giovani generazioni sono le regole del contributivo, per cui se non si raggiunge un certo ammontare di prestazione prima dell’età pensionabile si rischiano somme da fame. Come avviene purtroppo ancora di frequente sul mercato del lavoro, altra categoria che sarà penalizzata in futuro per la pensione è quella delle mamme.
L’Italia, sottolinea l’Ocse, è – insieme a Germania, Islanda e Portogallo – il Paese europeo dove una donna che trascorre cinque anni fuori dal mercato del lavoro per badare ai propri figli subirà, una volta in pensione, le conseguenze più pesanti. Sempre secondo uno studio dell’Inps, se le donne tra i trenta e i quaranta anni decidessero tutte di avere un figlio, una su tre si dovrebbe accontentare nel 2050 di una pensione di appena 750 euro.