La vittoria a sorpresa alle elezioni amministrative britanniche dell’Ukip, il Partito per l’indipendenza guidato da Nigel Farage che si batte per l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, il ritorno al governo dopo quattro anni di opposizione della formazione antieuropeista islandese guidata dall’ultraconservatore conservatore Bjarni Benediktsson, la crescita nei sondaggi del movimento
Alternative für Deutschland in Germania che si batte per il ritorno del marco (o per un euro riservato ai Paesi nordici e virtuosi), per non dire dell’affermazione alle recenti elezioni politiche italiane del Movimento 5 Stelle sono tutti indizi inequivocabili della risposta – più emotiva che meditata – che una parte non piccola dell’elettorato europeo sta dando alla crisi finanziaria e soprattutto alle cure che l’Unione Europea ha cercato di somministrare ai Paesi membri e ai loro debiti sovrani. Una deriva che da Parigi a Berlino, da Londra a Roma i capi di Stato e di governo osservano con grande preoccupazione. «L’Europa – commentava pochi giorni fra il presidente del Consiglio italiano Enrico Letta a colloquio con Angela Merkel – non deve essere vista come qualcosa di negativo. Il rischio è che possano diffondersi in tutta Europa, e non solo come è accaduto in Italia, movimenti antieuropeisti».Ma dove rintracciare l’origine e insieme il brodo di coltura dei nazionalismi, dei populismi e delle spinte centrifughe che flagellano l’Europa dei nostri giorni? La disoccupazione crescente, la perdita di credibilità della classe politica, l’insicurezza sociale, le catastrofi economiche e finanziarie, l’insorgere degli egoismi individuali non bastano a spiegare interamente il fenomeno. Un luogo eletto perché l’euroscetticismo attecchisca e si trasformi in astioso nazionalismo esiste, ed è una palude semantica dove le parole che un tempo designavano l’architettura dello Stato-nazione, il suo ordinamento giuridico, le sue gerarchie, i suoi valori sono andate ad arenarsi, a frangersi e mescolarsi, perdendo inesorabilmente di significato. È in questo slogarsi di senso che comincia a proliferare quel nichilismo antimoderno che è il primo arsenale dialettico al quale attingono i capipopolo e pifferai di ogni Paese e che finisce per influenzare anche coloro che ai nazionalismi non credono o non credono più. Al punto che gli stessi tedeschi – che a parole si dicono europeisti convinti – sono spesso più inclini a immaginarsi cittadini di un’Europa tedesca che di una Germania europea. Il deteriorarsi dei concetti cardinali su cui ancora fino a pochi anni fa si reggeva l’idea di Europa così come l’avevano concepita i padri fondatori ha fortemente contribuito a creare una contagiosa e condivisa rappresentazione dell’Unione Europea come Nazione-matrigna, insensibile e spietata. Facile è stato, visti i tempi, attribuirle le sembianze della perfida Grimhilde rielaborata dai Fratelli Grimm nella loro
Biancaneve (peraltro modellata dal cinema sul volto dell’incolpevole margravia Uta degli Askani di Ballenstedt, la cui statua è conservata – guarda caso – nel duomo di Naumburg in Sassonia). Nessuna meraviglia dunque se da un capo all’altro dell’Europa i greci neonazisti di Alba Dorata o i radicali comunisti di Syriza occhieggiano all’Uk Independence Party britannico e insieme ai
Perussuomalaiset (i Veri Finlandesi di estrema destra), al
Partij voor de Vrijheid (Il Partito per la Libertà olandese fondato da Geert Wilders) o al Fidesz ungherese di Victor Orbán, perché il Leitmotiv che in tutti i dialetti dell’antieuropeismo si solfeggia senza risparmio è semplice quanto efficace: tutti i mali – dicono gli antieuropeisti – vengono da un’Unione e soprattutto da una moneta che ha fallito la sua missione e dalla quale è bene uscire al più presto o non aderirvi mai per riguadagnare la propria sovranità nelle politiche di bilancio e nella gestione dei cambi. Fanfare per lo più stonate e prive di accurate analisi di cosa accadrebbe davvero se il consorzio europeo si sfaldasse e si tornasse agli Stati sovrani come erano al tempo della Comunità europea carbone e acciaio, ma che soffiano con successo sullo scontento che dilaga in tutta Europa, piagata da una disoccupazione altissima con punte vicino al 30 per cento in Spagna e con scarse prospettive di crescita nel breve termine. La risposta a queste derive sta nelle mani della politica. E un po’ anche in quelle di Grimhilde, pardon: di Angela Merkel. Ma bisognerà attendere le elezioni di autunno per sognare una Germania più conciliante e meno severa.