Repubblica popolare cinese al secondo posto tra le potenze economiche mondiali, Giappone scavalcato dal grande vicino asiatico nel secondo trimestre. Un sorpasso storico nel cuore dell’estate. Mentre da tempo a Pechino si rincorrevano entusiastiche illazioni e persino dichiarazioni in questo senso, la certezza è arrivata da Tokyo. Secondo i dati governativi, la crescita del Pil dello 0,4% su base annua ha portato la ricchezza prodotta nel Paese a 1.288 miliardi di dollari contro i 1.337 miliardi per la Cina. Una distanza ancora superiore se non fosse per l’apprezzamento dello yen.Un primato, quello su Pechino, che il Paese del Sol Levante deteneva dal 1968, guadagnato allora a spese della Germania, perduto oggi a favore di una Nazione con la quale nella storia il confronto è sempre stato intenso, fecondo sul piano culturale, sovente conflittuale su quello strategico.L’inarrestabile corsa della locomotiva cinese, che nel 2006 aveva sopravanzato Italia, Francia, Gran Bretagna e nel 2007 la Germania, ha ora davanti un ultima fermata, quella del primato mondiale che la banca d’investimenti Goldman Sachs prevede – con un ritmo di crescita del 7-8% – sarà raggiunta attorno al 2030.L’incognita principale riguarda la capacità di mantenere una crescita tanto elevata, a maggior ragione davanti alla bolla speculativa che già va gonfiandosi e alle giuste richieste di benessere e di diritti di una parte del Paese finora soggetta alle esigenze dello sviluppo economico. Il reddito pro capite dei cinesi, posto a 3.600 dollari, si confronta con quello medio Usa di 46mila dollari: un abisso che non potrà essere superato dal solo ponte di una crescita, esponenziale sì ma non equamente condivisa all’interno e da una propensione al risparmio che non favorisce i consumi interni. In ogni caso davanti allo storico "sorpasso", ancora una volta Tokyo si interroga sulle sue capacità e sui suoi limiti. In una situazione di obiettiva difficoltà per il colosso giapponese di tornare in gran spolvero sui mercati con le use produzioni di qualità e dall’alto contenuto tecnologico, tese sempre a una esasperata innovazione quanto a un servizio post-vendita che ha pochi rivali, la notizia apre le porte insieme a un incubo – quella subordinazione che il dato in sé sembra prefigurare – ma anche a un’ulteriore riflessione e rilancio. Non più nell’ottica finora dominante di predominio sui mercati in concorrenza con comparse, seppure di pregio, ma ormai in piena gara con comprimari su un set immenso ricco di possibilità come quello Asia-Pacifico.Una sfida oramai aperta per una società già preoccupata. Dall’inizio degli anni Novanta – con l’implosione della sua economia che portò a radicali mutamenti di prospettive e indirizzo – alla ricerca di nuovi equilibri interni e di un diverso ruolo internazionale. Al Giappone che apre ampi interrogativi sul proprio futuro economico e sul proprio ruolo mondiale, resta la sfida di riconoscere ed accettare le proprie diversità e i propri limiti.Le cifre pubblicate dall’Ocse nel 2004 dimostravano come il Paese del Sol Levante, tra tutti i Paesi che rientrano nell’organizzazione (con eccezione di Belgio, Spagna e Svizzera), possedesse un livello di povertà che si aggirava attorno al 15.3% situandolo così al quinto posto dopo Messico (20.3%), Stati Uniti (17.1%), Turchia (15.9%) e Irlanda (15.4%). Traducendolo in termini percentuali sulla popolazione che sfiorava i 128 milioni, ne deriva che 19,5 milioni di giapponesi vivevano allora – e nulla prova che la situazione sia oggi migliorata, anzi – in uno stato di difficoltà, se non di indigenza. I giapponesi continuano, è vero, a vivere l’illusione di appartenere a una "classe media" i cui contorni confortevoli si disegnano però sullo sfondo di un Paese non più modellato sulle grandi aziende che garantivano impiego a vita e infiniti benefit. Con il graduale impoverimento, la perdita graduale dell’uniformità culturale e etnica e la crescita delle "diversità", cresce la percezione dell’inadeguatezza degli standard di riferimento abituali. Oggi la disoccupazione è, secondo i dati Ocse, al 5,2%, ancora superiore dell’1,4% al periodo pre-crisi. Un dato non grave in assoluto, ma pessimo per questo paese. Una conferma che la ricchezza del Giappone deriva anche e sempre più da un minore benessere di chi ne usufruisce e dallo sfruttamento crescente di chi la genera: il motto «lavorare di più per avere di meno» è ancora sottaciuto, ma già interroga l’establishment di Tokyo.