Ci sono in Italia oltre due milioni di giovani che non stanno né studiando né lavorando. Un dato in forte crescita – non solo nel nostro Paese, perché il fenomeno dei cosiddetti né-né, o neet in inglese, è una piaga diffusa in tutta Europa – che non si spiega solo con la lunga crisi economica che sta mettendo a dura prova la tenuta sociale del Vecchio continente. E ci sono ormai oltre 36 giovani su cento, cioè più di uno su tre nella fascia 18-24 anni, che nel nostro Paese cercano un lavoro, ma non lo trovano. Questo sì in gran parte a causa della crisi economica, eppure non solo per questo. È evidente che le ragioni di un malessere così diffuso e di una condizione così grave, peraltro non in via di assorbimento in tempi rapidi, dopo cinque anni di crisi finanziaria ed economica praticamente ininterrotta, non possono essere ricercate esclusivamente nella caduta degli indici. Una crisi del lavoro così forte, così lunga e difficile da risolvere, non può che essere l’effetto di limiti oggettivi e concreti del ciclo economico, ma allo stesso tempo origine a sua volta di quelle difficoltà, in un circolo vizioso nel quale causa ed effetto finiscono per avvitarsi pericolosamente. La crisi genera carenza del lavoro, la fragilità del senso del lavoro amplifica la crisi. La flessibilità porta insicurezza, la sfiducia aumenta la precarietà. Generazione spread, la si potrebbe chiamare. Dove nel deserto delle offerte, il differenziale da colmare può essere anche quello tra la dimensione del sacrificio e la sfida di imparare a governare la condizione di flessibilità. I fattori decisivi sono da ricercare in buona parte nel percorso formativo e di orientamento. Un terzo degli studenti italiani oggi abbandona la scuola superiore statale, e ben il 20% possiede la sola licenza media. Un dato preoccupante se accostato al forte aumento di iscrizioni ai licei, che ormai riguarda un giovane su due. Si aspira cioè all’università, ignorando percorsi professionali intellettualmente meno ambiziosi, ma alla prova dei fatti il traguardo più alto viene raggiunto solo in pochi casi: risultano così inevitabilmente in calo i giovani che si iscrivono all’università, scesi dal 73% del 2003 al 63% del 2009, e di quelli che arrivano a discutere la tesi, solo il 20% tra i 30 e 34 anni. Insomma: pochi giovani preparati ai lavori manuali, pochi laureati, e un sistema scolastico che continua paradossalmente ad assicurare sbocchi occupazionali post laurea più ai figli dei ricchi che a quelli delle famiglie bisognose, negando il merito e fallendo l’obiettivo dell’uguaglianza nelle opportunità. Con un’età di ingresso nel mondo del lavoro che cresce inesorabilmente. A dominare è stato allora un modello che ha trascurato la ricerca della qualità nella destinazione delle risorse, e che ha educato più al mito dell’arricchimento fine a se stesso, anziché formare al lavoro come opportunità per trasformare la realtà. Che sia stato anche questo uno dei fattori che ha alimentato la crisi è ormai evidente. Le storie di giovani che raccontiamo in queste pagine – e che racconteremo nei prossimi giorni – non offrono la risposta ai problemi, non sono le vicende di persone che hanno trovato la formula magica per riuscire. Ma sono importanti perché testimoniano una modalità interessante, fuori dagli schemi consueti, di affrontare l’esperienza del lavoro e, in fondo, l’esistenza intera. Una strada per tentare il superamento della crisi.
Massimo Calvi
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Così Luca, dalle Marche, ha fatto le scarpe all'iPhone
«Il mio segreto? Un sogno e la forza della tradizione»
Se è vero che Steve Jobs vedeva nel computer una bicicletta per la mente, lo strumento per cambiare il mondo, non è poi così strano che Luca Torresi, figlio di questa terra di ciabattini, abbia visto nell’iPhone un "piede" su cui disegnare la prima cover biodegradabile. Chimica e tanto design: siamo di fronte a un’idea nuova che si fa prodotto, ma che non nasce dal nulla, anzi germoglia all’interno di uno dei pochi distretti industriali sopravvissuti alla crisi. Ventotto anni, una passione smodata per il fondatore della Apple, Luca è uno dei simboli della piccola impresa che ce la fa, malgrado il credito che non c’è e l’Iva alle stelle. Confartigianato l’ha chiamato a spiegare ai suoi quadri dirigenti come si possa lanciare un prodotto innovativo, ecologico e interamente made in Italy senza delocalizzare le fasi produttive più costose in Romania o in Vietnam. Di fronte a tremila persone e qualche ministro, Luca ha presentato "iNature", ha raccontato l’entusiasmo con cui è stato accolto nel mondo dell’informatica e della telefonia – fino a qualche tempo fa la Mecca degli investitori – e del suo progetto di invadere i mercati "ricchi" con un accessorio che, dice lui, «i cinesi non possono copiare».
Il titolare della Biomood (al 50% con Paolo Pallotta) è un ragazzo estroverso e geniale, ma lo si potrebbe liquidare come uno dei tanti emuli del "profeta della mela" se la sua invenzione non si inserisse in una tradizione secolare e tipicamente italiana. «Qui facciamo tutti le scarpe, chi più chi meno. E realizzare la cover di un telefonino – spiega – non è molto diverso dal vestire un piede. L’idea mi è venuta perché sono un consumatore di prodotti informatici, ma di quelli ghiotti, e tuttavia sarebbe rimasta un sogno se non si fosse sposata con una tecnologia del settore calzaturiero».
Il papà del Mac sosteneva che per aver successo nella vita bisogna saper «unire i puntini» e naturalmente Luca è d’accordo: «Se non avessi conosciuto Paolo, che utilizzava già l’Apinat, una bioplastica che si lavora per iniezione, non sarebbe nata iNature».
Il punto è che per diventare Luca Torresi devi avere qualche soldo da parte. Altrimenti è arduo convincere una banca a unire i suoi puntini con i tuoi. «All’inizio nessuno ci faceva credito, diversamente da oggi», ammette, ma lo start up si è concluso e l’investimento iniziale è già stato ammortizzato.
La produzione iNature è già entrata nella grande distribuzione. Quando il bisnonno di Luca creò la prima impresa fondata su chiodi e lesina, il successo lo sancivano i mercati di Roma e Parigi; oggi lo consacrano le fiere dell’elettronica di consumo di Berlino e Las Vegas, dove Biomood si è aggiudicata il prestigioso premio Innovations Design and Engineering – lo stesso della Samsung – per aver prodotto l’unica cover per cellulari soft e al cento per cento biodegradabile.
Certo, di giovani genialoidi che ripetono allo sfinimento «siate affamati, siate folli» se ne trovano a bizzeffe e sono centinaia di migliaia gli italiani convinti di poter sconfiggere la crisi con una applicazione per iPhone, ma, come ammette Luca, «tra i miei coetanei non c’è più la voglia di fare e di trascorrere le vacanze estive in azienda, per imparare un mestiere antico che poi tanto antico non è, in quanto ti insegna a padroneggiare la materia prima e a trasformarla in un manufatto di successo».
Scarpe e ancora scarpe, sono il business di questi paesi "di montagna" – Montegranaro, Monte Urano, Monte San Giusto... – che la mano di un pittore ha collocato al centro di un diorama del gusto italiano, fatto di campi di grano e di girasole, vigne e uliveti delimitati da filari di cipressi, casali e boschi ombrosi. La ricchezza di questa terra (e di tutto il made in Italy) va cercata forse nella capacità di unire il gusto estetico e l’amore per la materialità, la mano del pittore e quella dell’artigiano che lavora i frutti, la carne, il vino, la ceramica. E la pelle del vitello, che quand’è giovane e pregiata presenta al tatto un "fiore" minuscolo: se fissi bene riesci a vederlo, ma solo chi campa facendo tomaie sa esattamente quanto vale quel fiore.
«Una cover iNature viene venduta al pubblico a 19,90 euro, le omologhe in plastica arrivano dalla Cina a 20 cents». Sul mercato globale, insomma, il "nemico" è sempre lo stesso. Quando lo incroci a Las Vegas, dice che il tuo prodotto è
nice stuff e anche se non sai l’inglese capisci che lo sta fotografando con gli occhi: «Questa volta i cinesi non riusciranno a copiarcelo, è tutto brevettato, la materia prima e il design, il logo e il progetto, questa volta non ce la faranno!» azzarda l’imprenditore, che non millanta una fede ecologista. «Produco green perchè il mercato lo richiede e ho una sensibilità ambientale come qualsiasi marchigiano che si rende conto di vivere in un piccolo eden» (se non siete stati a
Fiastra non potete capire...).
Come Steve, anche il giovane Torresi ha abbandonato l’università per buttarsi a capofitto nel lavoro e il magazzino di pellami che si affaccia sulla via Fermana Sud non è molto diverso dal garage di Los Altos in cui iniziò l’avventura Apple, ma i parallelismi finiscono qui. «Adoro Steve Jobs, tuttavia credo in Dio e ho un’idea tradizionale di famiglia e di comunità» racconta infatti l’ex scout, ex Acr, ex chitarrista nel coro parrocchiale ed ex "inglesino di Montegranaro" per via della band che ha fatto conoscere gli Oasis alla valle del Chienti. Risalgono ad allora gli orecchini in cocco che porta ancora oggi: «Sono una parte di me – dice – io neppure li vedo, ma gli altri li notano e mi sa che dovrò rinunciarvi. Un giorno il presidente della Camera di Commercio mi ha detto: porti bene la cravatta, ma quegli orecchini...». Siamo a Fermo, mica a Cupertino.
Paolo Viana