giovedì 25 luglio 2024
Yellen chiude la porta a un coordinamento: «È preferibile che ciascuno Stato si occupi del suo sistema fiscale». Nel documento finale c’è il rischio di una dichiarazione fumosa
La tassazione dei super ricchi tra i temi discussi al G20 in Brasile

La tassazione dei super ricchi tra i temi discussi al G20 in Brasile - Ansa

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Dopo il giorno dell’Alleanza globale contro la fame, ieri al G20 ha ancora tenuto banco l’altro cavallo di battaglia della presidenza di turno brasiliana: la tassa sui grandi patrimoni. I due temi, povertà e patrimoniale per i super ricchi, in qualche modo si legano, visto che dalla seconda possono arrivare risorse per sradicare la prima, anche se è proprio sulla seconda che è più difficile mettere d’accordo tutti. Il presidente Lula insiste: «I super ricchi pagano in proporzione molte meno tasse rispetto ai lavoratori», e ieri il suo ministro dell’Economia Fernando Haddad, che nel suo Paese è diventato un meme al nome di “Taxad” proprio per la sua propensione al rigore fiscale, ha ribadito che l’imposta globale per i milionari è una assoluta priorità nell’agenda del Gruppo dei 20 e secondo le stime raccoglierebbe 250 miliardi di dollari l’anno.
Sul principio nessuno è contrario, tanto più che proprio ieri Oxfam ha comunicato che l’1% più ricco del mondo ha aumentato la sua fortuna di 42.000 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, un incremento pari a 34 volte quello registrato, nello stesso periodo, dalla metà più povera della popolazione mondiale. E soprattutto i paperoni del pianeta non hanno mai pagato così poche tasse come adesso: se infatti i loro redditi sono cresciuti del 45% negli ultimi quattro decenni, nello stesso periodo le aliquote più alte su quei redditi sono state ridotte di circa un terzo. Per farla breve: su scala globale, le imposte pagate dai milionari equivalgono allo 0,5% della loro ricchezza, secondo Oxfam che cita l’Osservatorio fiscale dell’Unione europea.
Un dato, quest’ultimo, che non può lasciare indifferenti, soprattutto all’indomani dell’accordo contro la fame, la quale continua invece a dilagare nel mondo, con 2,3 miliardi di persone a rischio (anche moderato) di insicurezza alimentare. La proposta sottoposta al G20 è sul modello della Global minimum tax lanciata dall’economista Gabriel Zucman, che prevede una tassa del 2% sui patrimoni superiori al miliardo di dollari. Compromesso ragionevole, eppure ci sono resistenze in seno alla comunità internazionale soprattutto sulle modalità: gli Stati Uniti, attraverso la sottosegretaria al Tesoro Janet Yellen, hanno chiarito di non opporsi all’idea ma di essere «a favore della tassazione progressiva. Crediamo sia difficile un coordinamento globale e preferibile che ciascun Paese si occupi del proprio sistema fiscale», ha detto l’ex presidente della Federal Reserve nella città carioca. Se non è una bocciatura, ci assomiglia moltissimo. Tanto che nel documento conclusivo su cui si sarebbe trovato un accordo si parla genericamente di «una dichiarazione a livello ministeriale sulla cooperazione internazionale in materia fiscale».
Il presidente Joe Biden aveva dichiarato che in caso di rielezione avrebbe valutato l’introduzione di una Billionaire minimum income tax, ovvero una tassa minima sulle entrate dei miliardari, ma come sappiamo Biden non è più della partita e in caso di vittoria di Donald Trump lo scetticismo su questa operazione potrebbe persino trasformarsi in totale avversione. Sulla stessa linea della Yellen anche l’Unione europea: il commissario Paolo Gentiloni ha spiegato che «si tratta di una competenza dei singoli Paesi, difficile da superare con schemi globali, ma penso che le difficoltà non pregiudichino l'impegno comune, infatti nel documento delle conclusioni di questo G20 ci sarà una disponibilità comune a considerare primi passi in questa direzione». L’Italia, da parte sua, attraverso le parole del ministro Giancarlo Giorgetti aveva già fatto sapere di essere tendenzialmente a favore. Del resto all’ultimo World Economic Forum di Davos sono stati gli stessi milionari, in una lettera firmata da 250 di loro, a chiedere al mondo politico di essere maggiormente tassati.
Ma non si è parlato solo di questo nelle ultime sessioni di lavoro a Rio de Janeiro, che hanno ospitato anche una delegazione della COP e legato il dibattito sulla finanza sostenibile alle questioni ambientali e all’accesso all’acqua. Ci si è confrontati su come reperire risorse per una transizione giusta e in grado di affrontare le catastrofi climatiche già in corso: «Il finanziamento è il punto più importante dell’azione per il clima», ha sintetizzato Muhammed Al Hussaini, ministro delle Finanze del Paese arabo, mentre la ministra dell’Ambiente brasiliana Marina Silva ha ricordato che «sono proprio le prime 20 economie del mondo ad essere responsabili dell’80% dell’emissione globale di gas serra».
Il G20 brasiliano, che culminerà a novembre col summit dei leader, rafforza dunque la sua inclinazione sui temi sociali e ambientali, mentre sono stati rigorosamente banditi la geopolitica e le guerre. Del resto la posizione di Lula, rispetto a quella dell’asse euro-atlantico, è divergente sia sul conflitto ucraino che su quello palestinese, e quindi a differenza del G7 di Borgo Egnazia dello scorso giugno, il G20 non è stata finora l’occasione per cementare l’alleanza occidentale ma anzi per dare spazio e voce al Global South, strizzando l’occhio al nuovo baricentro di potere che si sposta verso Oriente, in particolare verso la Cina, di cui proprio il Brasile è il primo partner commerciale. Nel giro di pochi mesi due importanti vertici internazionali con padroni di casa completamente opposti: l’atlantista Giorgia Meloni prima, il disallineato Lula dopo. E nel mezzo verrà eletto (ma non sarà ancora in carica) il nuovo presidente degli Stati Uniti.

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