I dati pubblicati ieri da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, parlano chiaro: la disoccupazione in Europa continua a salire, anche se la stabilizzazione dei mercati finanziari e il miglioramento della fiducia tra imprese e consumatori sembrano indicare che l’economia è in ripresa. A settembre la disoccupazione nei sedici Paesi cha hanno adottato l’euro ha raggiunto il tasso più alto negli ultimi dieci anni: 9,7%. Contro il 9,6% registrato lo scorso agosto e il 7,7% di un anno fa. Complessivamente, invece, nei ventisette Paesi dell’Ue il tasso di disoccupazione è arrivato al 9,2% il mese scorso. Contro il 9,1% di agosto e il 7,1% di un anno fa. Dalle percentuali si passa ai numeri: nel giro di un mese, da agosto a settembre, i disoccupati sono aumentati di 184mila unità nell’area euro e di 286 mila unità nell’Ue. Rispetto ad un anno fa, invece, i senza lavoro sono aumentati di più 3 milioni nell’Eurozona e di 5 milioni nell’Unione. «Un aumento così forte e così rapido della disoccupazione è gravissimo. Se non verrà arginato al più presto, ci saranno rischi per l’intera società». Sfogliando i dati europei sull’occupazione, Jean-Paul Fitoussi non ci tiene a mostrarsi rassicurante. Anche perché «in Europa c’è un problema di governo economico, oltre che economico», sostiene il celebre economista alla guida dell’Ofce (Osservatorio francese delle congiunture economiche).
Professore, come reagisce a queste cifre?Penso che la crisi sta ancora davanti a noi, perché la disoccupazione continuerà a crescere dappertutto nel mondo sviluppato. In Italia, in Francia, in Germania, ma anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti. La vera spia della crisi non mi pare il livello di attività economica, ma proprio la disoccupazione. In questa situazione, se non vogliamo un crollo dei Pib, occorre che gli Stati restino interventisti. Altrimenti, l’aggravamento della disoccupazione abbasserà il potere d’acquisto delle famiglie e i fattori della crisi non scompariranno.
I piani anticrisi in Europa hanno trascurato l’occupazione?Non direi. Senza i piani, la situazione sarebbe peggiore. Ma il problema della disoccupazione è oggi il problema numero uno e non se ne parla ancora in questi termini. La disoccupazione ha effetti diretti sui redditi familiari, ma anche effetti indiretti sulla natura del lavoro, che diventa più precario. Con conseguenze distruttrici per la società. In società europee che tendono già a ripiegarsi su se stesse, una simile disoccupazione accresce il rischio di tensioni ancora più gravi.
Potrebbe citarci uno Stato europeo virtuoso?Non ce ne sono, purtroppo. Per il momento, nessun Paese si stacca dal plotone.
In Italia, si ricorre molto alla cassa integrazione. Che ne pensa?La disoccupazione non è mai una soluzione, è sempre un problema. La cassa integrazione può servire nel breve periodo. Ma nessuna misura sociale può resistere a una disoccupazione di massa. In quest’ultimo caso, tutti i sistemi di protezione esplodono. La disoccupazione significa che il Paese s’impoverisce e in simili condizioni non può permettersi di pagare a lungo per i disoccupati. Rassegnarsi alla disoccupazione è dunque impensabile.
Quale strada dovrebbe imboccare l’interventismo pubblico?Occorre concentrarsi sulla creazione d’impiego, perché non basta formare i disoccupati orientandoli su altri mestieri. Se l’impiego non c’è, non sarà la formazione a crearlo. Occorre creare attività nei settori con un avvenire, come le energie rinnovabili e in generale le tecnologie ambientali.
L’idea di un "grande prestito" d’avvenire, alla francese, le pare ragionevole?Certamente. Ma sarebbe stato molto più ragionevole su scala europea. Anche perché con un piano d’investimenti coordinato, non si parlerebbe più di Paesi che sono buoni o cattivi allievi in termini di debito pubblico. Sarebbe il debito europeo ad aumentare.
L’Europa avanza sempre in ordine sparso?In ordine molto sparso e fa molto poco, perché esiste un problema strutturale di assenza di governo economico dell’Europa. Anche col Trattato di Lisbona, che non tocca le questioni di bilancio o di fiscalità, non vedo come la situazione possa cambiare. Per ogni punto decisivo, si attende sempre l’unanimità.
Intanto, persino le esportazioni tedesche crollano. C’è un problema di competitività?Per nulla. Ma c’è un problema legato all’euro forte. Anche Mac Donald’s ha dovuto chiudere i ristoranti in Islanda perché la carne importata dalla Germania costava troppo. E Mac Donald’s non manca certo di competitività.
Punta il dito contro Francoforte?No, non si vede bene cosa la Bce possa fare. Dovrebbero essere i governi a promuovere piani di rilancio più coraggiosi, obbligando così la Bce a prendere una direzione. Se non c’è nulla da finanziare, la Bce non può far nulla.
Su quali pilastri appoggiare questi piani?Nella zona euro, c’è tutto. Capitale, intelligenza, know kow e qualsiasi altro fattore di produzione. Potremmo raggiungere la crescita sperata, ma la prima condizione è un governo dell’economia europea col coraggio d’investire. In caso contrario, la nostra crescita resterà inferiore a quella americana. Perché negli Stati Uniti, la politica economica ha un’azione flessibile. In Europa, ci sono solo regole.
Come giudica l’attuale congiuntura?Stiamo finendo di cadere e ci stiamo lentamente rimettendo in piedi. Ma anche solo per ritrovare il livello del 2008, occorreranno diversi anni. E per ora, mentre la gente perde il lavoro, resta molto sconveniente lanciare messaggi ottimistici.