Sergio Gatti, presidente Federcasse - Siciliani
La speranza è che nel giro di pochi giorni i miliardi di euro di credito garantiti con il Decreto Liquidità possano arrivare alle aziende. «C’è qualche macchinosità in più del previsto che bisogna risolvere» spiega Sergio Gatti, direttore generale di Federcasse, l’associazione delle 259 Banche di Credito Cooperativo e Casse Rurali che operano in Italia.
Che cosa manca perché quella liquidità raggiunga davvero le imprese?
Una premessa: vogliamo fare arrivare il credito ad aziende e artigiani il più rapidamente possibile. Nessuno sta cercando degli alibi per ritardare, vediamo l’urgenza di sostenere il sistema produttivo in un momento critico. Le banche di comunità servono le e alle comunità soprattutto nei momenti difficili. Il decreto ha introdotto un insieme di misure indispensabili. Anche le più semplici, come quella dei 25mila euro per le piccole aziende, non sono facili da gestire per una banca. Intanto occorre aspettare il via libera dell’Antitrust europeo, che dovrebbe arrivare a giorni. Poi conviene creare un format universale per le richieste, approvato dalla Banca d’Italia, in modo che ogni banca non debba rifare lo stesso lavoro: secondo i nostri calcoli i soggetti che potrebbero chiedere i 25mila euro sono circa 2,6 milioni. Occorre infine un sistema di prevenzione condiviso che prevenga il rischio di frodi. Non sono problemi piccoli.
Quindi c’è da aspettarsi tempi un po’ più lunghi del previsto?
Il messaggio che è passato è stato "tutto e subito". Questo è stato possibile per le moratorie, per la nuova finanza è più complicato. Penso che già la settimana prossima si potrebbe partire con l’applicazione delle misure più semplici, per quelle più complesse l’obiettivo è arrivarci entro aprile. Per funzionare e generare nuova finanza le garanzie devono essere ben costruite, di solito serve tempo ma è ovvio che nessuno era preparato a una situazione di questo tipo.
Vale lo stesso discorso per gli anticipi della cassa integrazione?
Sì, anche per quello contiamo che si possa partire entro aprile. Noi abbiamo la fortuna che essendo banche di comunità conosciamo molto bene i territori in cui operiamo. Una Bcc sa distinguere chi si rivolge alla banca per vera necessità. Sull’anticipo della cassa integrazione c’è stata un’immediata mobilitazione, molte nostre federazioni regionali hanno sottoscritto accordi che facilitano ulteriormente il processo. Tra gli anni 2009 e 2012 abbiamo maturato una grande esperienza di accordi territoriali per gestire anticipazioni ai lavoratori della cassa integrazione.
Gli interventi che il governo ha introdotto fin qui sono sufficienti?
Siamo ancora nella fase del ristoro del reddito che è andato perduto. Poi dovrà arrivare la fase degli investimenti per recuperare il lavoro e i mercati esteri. Dobbiamo mettere in campo tutto ciò che servirà perché il lavoro sia pieno per tutti, anche per chi partiva da condizioni di precarietà e senza ignorare anche quelle situazioni dell’economia "informale" che in qualche modo producevano reddito.
Avete proposto anche un allentamento delle regole sul credito per le banche del territorio.
Questa situazione critica mette in evidenza la funzione centrale del credito: il soccorso all’economia passa dalle banche. In Europa, diversamente da quanto accaduto negli Stati Uniti in Svizzera o altrove, dopo la crisi del 2008 si è scelto un approccio che ha tenuto poco conto della diversità che c’è all’interno del mondo bancario: a tutte sono state applicate le stesse regole. Ma le piccole banche di comunità sono diverse dai grandi gruppi bancari, il mutualismo non è uguale al capitalismo. Ora vediamo che c’è stato un cambio di approccio, tra Bce ed Eba, che hanno allentato le maglie per superare norme e approcci restrittivi nell’erogazione del credito alle imprese. Dopodiché si dovrà arrivare a un cambio anche riguardo le piccole banche, che sono indispensabili pedine della stabilità finanziaria e del funzionamento dell’economia, soprattutto se hanno finalità mutualistiche. Anche se appartenenti a gruppi. Negli Stati Uniti la Fed ha appena ampliato le possibilità operative delle community banks, per l’Europae siamo speranzosi e fortemente impegnati. Bisogna intervenire ora, non una volta che la crisi sarà passata.
Come vi siete organizzati per assicurare la sicurezza nelle filiali?
Abbiamo negoziato un protocollo con i sindacati, che partivano dalla richiesta di chiusura totale. Non si poteva chiudere tutto: come gestire altrimenti le richieste delle aziende e anche della clientela, che nel nostro caso è meno attrezzata sul digitale? Abbiamo trovato un’intesa che garantisce la protezione della salute per dipendenti e clienti. Nelle filiali si riceve solo su appuntamento da diverse settimane, alcune si sono attrezzate con pannelli in plexiglass, tutte comunque con materiale di protezione individuali. E naturalmente con sanificazioni dove necessario per ridurre i rischi al minimo. Importante il ricorso anche al lavoro agile. Il protocollo prevede la costituzione di commissioni aziendali per la verifica congiunta dell’applicazione dell’accordo.
In che modo date un sostegno ai territori in cui lavorate durante questa emergenza?
Le Bcc conoscono le loro comunità, la grande maggioranza delle nostre banche ha fatto donazioni significative agli ospedali fin dai primissimi giorni dell’emergenza. In alcuni casi hanno permesso l’apertura di reparti di terapia intensiva in ospedali che non li avevano. Siamo già oltre i 7 milioni di euro donati velocemente sia nelle zone più colpite sia nelle aree del Sud dove le strutture preparate a gestire l’emergenza erano in media meno numerose. A livello nazionale Iccrea, Cassa Centrale e Raiffesein, con il supporto di Federcasse, cioè tutto il sistema del credito cooperativo, stanno raccogliendo fondi coinvolgendo anche dipendenti, soci e clienti per finanziare un progetto significativo d’intesa con il ministero della Salute.
Che lezione impariamo da questa crisi?
Il documento della Cei per il Primo maggio, in continuità con la Settimana sociale di Cagliari e verso quella di Taranto nel 2021, ripropone il trilemma tra lavoro, ambiente e salute emerso con forza dal caso dell’ex Ilva. Questa pandemia ha reso evidente quanto quel trilemma non sia locale, ma mondiale. Trovare un punto di equilibrio innovativo sarà la grande sfida dei prossimi anni.